Biografia sentimentale dell’ostrica
Lo confesso. Fino a poco tempo fa arricciavo il naso davanti ai gusci nodosi che ospitano quelle viscide e fredde creaturine degli abissi. Ero tra gli scettici dell’ostrica, quelli che davanti al vassoio ghiacciato cedono volentieri il passo, facendo così felice qualche altro commensale, o che se proprio non possono sottrarsi la mandano giù come una brutta medicina. Insomma, per me l’ostrica era una stranezza non necessaria – come del resto tutti i lussi sono -, una stranezza vischiosa e potenzialmente pericolosa, oltre che sgradevole.
Ma poi ho letto un libro.
“Biografia sentimentale dell’ostrica” è un inconsueto e insospettabile capolavoro, una perla, tanto per restare in tema. Poco più di un centinaio di pagine di delizie, vale a dire aneddoti, ricordi e soprattutto ricette, condite dall’humor di Mary F. K. Fisher. Per una buona volta il titolo della traduzione italiana pare più azzeccato dell’originale “Consider the oyster”, meno brillante forse ma decisamente in linea con un contesto letterario ed editoriale in cui già solo l’idea di una donna che scrivesse di pietanze afrodisiache, per di più con spirito, sembrava una bestemmia. Sì, perché nel 1941 questo libricino fu a suo modo uno scandalo. L’autrice, del resto, sembra venire dal futuro: vive perennemente in viaggio tra la Francia e la California, ha una figlia illegittima del cui padre non rivelerà mai l’identità, divorzia, ha uno specchio in cucina per farsi bella. E non solo. Scrive bene, tanto bene da essere definita la più grande prosatrice americana del secolo. Peccato però – dissero all’epoca – che scriva di cucina. Roba che a sentirla oggi, bombardati come siamo di food bloggers, food writers ecc. viene da sorridere. Dalle critiche alla sua passione per il cibo Mary Fisher era più che altro sinceramente divertita (e sofisticata com’era, fidatevi, poteva permetterselo): “Secondo me, i tre bisogni fondamentali dell’uomo – cibo, amore, sicurezza – sono così strettamente legati che è impossibile pensare a uno di essi senza pensare anche agli altri”. Aveva scritto di tutto, sia chiaro, ma la cucina per lei rimaneva sempre il luogo in cui tutti i grandi temi s’incontrano, dove i fili del mondo s’intrecciano con esiti meravigliosi, perché “anche nell’angoscia della morte e del dolore e delle brutture resta la fame, e insieme alla fame la vita, con tutta la sua pace. Come se i nostri corpi, più saggi di noi, ci incoraggiassero, contro di noi e quello che abbiamo imparato, e ci costringessero a rispondere, e a mangiare.”
Se la sua scrittura può permettersi di frugare nelle profondità dell’esistenza senza mai sconfinare nel moralismo, nella pedanteria o peggio di peggio nell’ovvietà, è proprio grazie al suo irriducibile anticonformismo. In “Biografia sentimentale dell’ostrica”, tra una salsa tartara e una disquisizione sullo status sociale delle verdure, la Fisher rivela piccole eppure potenti verità, come quando scrive che “le convinzioni degli uomini riguardo alle ostriche, così come quelle su Dio, la guerra e le donne, continuano a battere sempre le vecchie strade”. La sua sensibilità è decisamente pungente e spontanea, a tratti irriverente, in altri commovente quanto il sapore di mare delle conchiglie calcaree di cui ci racconta vita morte e soprattutto miracoli. Per questo e per un’altra miriade di ragioni, il suo legame con questi molluschi pregiati è piuttosto stretto.
Esattamente come la Fisher, “l’ostrica conduce un’esistenza terribile e al contempo eccitante”. Le tocca superare una serie estenuante di difficoltà prima di arrivare ancora pulsante su quei vassoi gelati con gli spicchi di limone. A quel punto, che almeno faccia una buona fine! La Fisher sconfessa la tradizione europea che fa dell’ostrica un bocconcino di crudités per boriosi, snobbish e gourmet e ce la mostra invece nelle padelle roventi delle taverne americane, nelle zuppe domenicali per i bambini, persino inscatolate in lattine a buon mercato. In tutto il libro, è martellante l’intenzione di fare di questo mollusco “uno di noi”, come un eroe letterario, il protagonista a cui ci si affeziona, in cui ci si riconosce perché, in fondo, patiamo tutti le stesse sofferenze sentimentali delle ostriche.
“Esistono tre categorie di mangiatori d’ostriche: i tipi dalla mentalità aperta che le mangerebbero in tutti i modi, calde, fredde, vive, morte, in brodo o in zuppa, basta che siano ostriche; quelli che le mangiano solo e soltanto crude e quelli che, con lo stesso rigore, le gustano cotte e in nessun altro modo. La prima categoria è forse quella che se la gode di più sebbene l’integralismo degli altri due gruppi sia alimentato da un fuoco sacro che mai scalderà le mentalità più tolleranti. A favore della seconda categoria ci sarebbe molto da dire, dal momento che quasi tutti i mangiatori di ostriche, esclusi appunto i più convinti adepti del terzo e ultimo gruppo, si toglierebbero la vita piuttosto di negare che un’ostrica perfetta, sana, di buon sapore, prelevata dal suo gelido letto e servita senza essere stata lavata né condita, sia più deliziosa di qualunque variante cucinata. D’altra parte un esemplare flaccido, molle, sfiancato dagli eccessi amorosi e con i nervi a pezzi a causa della situazione del mondo farà un’impressione davvero pietosa servito crudo nella sua conchiglia. E a questo punto che il terzo gruppo, i fanatici sostenitori dell’utilità del calore e delle salse per nascondere una moltitudine di difetti reali o immaginari, sale trionfante alla ribalta. Qualsiasi ostrica, persino una giapponese bastarda, prelevata lungo le coste dell’Oregon, cotta al vapore e inscatolata, può sprizzare buonumore e gioia di vivere quando è, come dicono, ben vestita. E hanno ragione.”
Oyster stew – che non è uno stufato ma quasi- e crackers di altri tempi
Sembra impossibile dalle nostre parti, ma c’è una quantità pressappoco infinita di modi di cucinare le ostriche. Tanto per sparare qualche esempio stravagante: tacchino ripieno di ostriche, pane alle ostriche, ostriche arrosto, ostriche essiccate con verdure, fino alla ricetta che la Fisher riporta col titolo “come fare una perla” (s’intende in casa, in dieci anni di tempo e con l’aiuto di “una tuffatrice”). Ma per noi neofiti è forse più saggio partire da qualcosa di semplice seppure estremamente evocativo: una zuppa di ostriche secondo la ricetta originale della famiglia Fisher, che ovviamente riporto fedelissimamente dal libro sic ut es.
- 4 dozzine di ostriche
- 2 tazze del liquido delle ostriche
- 2 tazze di panna
- 4 cucchiai da avola di burro
- Sale di sedano
- Pepe
Fate sobbollire per 5 minuti una tazza del liquido delle ostriche e quindi togliete la schiuma che si sarà formata. Aggiungete la panna e il burro e condite a piacere. Cuocere le ostriche con l’altra tazza di liquido finché i bordi non si saranno arricciati (circa 5 minuti), scolatele e aggiungetele alla crema. Servite immediatamente.
Immancabili, i cracker da usare come versione goduriosa dei crostini. Anche loro, riportati dal libro con cura filologica:
- 600 gr di farina
- 3 cucchiai da tavola di burro
- 1/2 cucchiaino di bicarbonato sciolto in acqua calda
- 1 cucchiaino di sale
- 2 tazze di latte
Mescolate il burro ammorbidito alla farina o, ancor meglio, spezzettatelo con un coltello come si fa per la pasta brisèe; poi aggiungete il sale, il latte e il bicarbonato, impastando bene. Formate una palla, stendetela su un piano infarinato e lavoratela con il mattarello per una mezzoretta, rivoltandola spesso. Tirate la pasta fino a ottenere uno strato uniforme di più o meno mezzo centimetro o anche più sottile, tagliatela a quadretti e bucherellateli bene con una forchetta, poi infornate a temperatura moderata finché non saranno croccanti. Prima di consumarli, lasciateli asciugare bene in un sacchetto di mussola appeso in cucina.
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