bigott | My friends are dead
La prima cosa che mi ha colpito di “My Friends are Dead” è la copertina. Mi ha ricordato quella dell’edizione Mondadori di “Virgin Suicides”, Jeffrey Eugenides, le labbra semischiuse di un amore adolescente. Di pathos e di dolcezza.
Tutto quello di fresco e di croccante che desideri.
L’indie sperimentale e gaudente di bigott è qualcosa di eccentrico, entropico come una domenica al dì di festa e un Rendez-Vous di Manu Chao (vedi i ritmi ballerini e birichini di Female Eunuque), sofferente come Morna di Vinicio Capossela. Che non sono propriamente indie, e in questo dettaglio più ampio di un sottogenere consiste il magico e l’onirico, il fascino boemo.
L’aspetto stesso del cantautore spagnolo (la barba) invita a piaceri orgiastici e selvatici, d’altra parte l’inversione di ruoli e la variazione di posizioni sono al centro dei suoi testi (She’s My Man) e del suo immaginario pantagruelico e panistico, in un’accezione d’annunziana di fusione col tutto.
Un amore molto sospirato, dolce e al tempo stesso maledettamente vorace.
My friends are dead è un album, nei testi e nel sound, meno anticonvenzionale dei precedenti (vedi la cullante I’m little retarded, un inno in tre accordi di chitarra classica per gente che vive sovrappensiero). Al sottofondo chiassoso della piazza e della banda, si sostituisce una chitarra elettrica dalle reminiscenze tese del rock anni ‘90 -vedi Pixies, Hey, e vedi il sognante e più recente My Dreams Dictate My Reality di Soko, dal background e dalle aspirazioni molto simili-.
Come molte delle mie Recinzioni, My friends are dead dialoga con il lato imperscrutabile dell’irriverenza e della provocazione. Se questi temi non sono espressi nei testi sotto forma di scambio di ruolo e deep inside (figure femminili estremamente inafferrabili ed attive), ci pensano gli assoli imprevedibilmente rock , in cui la chitarra elettrica sostituisce quella classica, indirizzando l’album verso un genere che risente sempre meno del folk gaudente di un cantautore un po’ hippie.