Big Thief | Dragon New Warm Mountain I Believe In You
In soli cinque anni, i Big Thief sono diventati il cardine del nuovo indie americano, e il loro resta uno dei rari casi in cui quella definizione abbia ancora un senso – incidono per un’indipendente, il loro songwriting evita senza sforzo le lusinghe del classicismo e la loro prolificità pare dettata dalle sole logiche della necessità espressiva.
Disco dopo disco, Adrianne Lenker, Buck Meek, James Krivchenia e Max Oleartchik hanno dato vita a un’entità imparagonabile ad altre, nell’asfittico mondo della musica bianca guitar-based. Vivono e creano come un’intelligenza collettiva e mostrano un’unità di intenti che trasforma il loro interplay in un linguaggio vero e proprio: la scrittura è quasi tutta appannaggio di Lenker, ma i Big Thief suonano come se sapessero già quale sarà il prossimo cambio di accordi. Come se, più che trovare l’incastro perfetto, commentassero ognuno gli interventi strumentali e vocali degli altri, sostenendosi a vicenda.
Non normali canzoni, quindi: di quelle se ne trovano a milioni nell’era delle playlist e degli algoritmi; piuttosto, fluide transizioni tra stati emotivi tradotte in note da quattro musicisti che non hanno paura di aprirsi e lasciarsi leggere completamente dai compagni, fornendo loro il codice per farsi decrittare. Per averne prova e godere di un’esperienza impagabile, basterebbe osservare le trovate di Meek in concerto: quelli che in altre mani diventerebbero semplicemente suoni sbagliati, nelle sue si fanno complemento essenziale di un canzoniere imprendibile; analogamente, le sue mosse sbarazzine sul palco non trasudano tanto confidenza in sé, quanto piuttosto fiducia in una relazione inattaccabile.
Dopo l’accoppiata U.F.O.F. / Two Hands del 2019 – che seguiva e portava a pieno compimento le intuizioni già mature di Masterpiece (2016) e Capacity (2017) – Lenker si è presa una pausa dalla band-madre per dare alle stampe il memorabile Songs/Instrumentals: il disco di canzoni che si potrebbe far ascoltare tra qualche decennio per far capire a chi non c’era quale fosse il suono del mondo quando il mondo si è fermato. Ma i Big Thief non sono mai andati in stand-by e con Dragon New Warm Mountain I Believe In You offrono un attestato di creatività ubriacante, raccogliendo il meglio di cinque sessioni di registrazione tenute in diversi luoghi tra l’aprile e il dicembre 2020, al fondo della pandemia.
Avvolte in una copertina dolcissima – bestiole stilizzate a matita che suonano intorno a un falò – le venti canzoni distribuiscono su quattro lati istantanee sonore di una realtà parallela dove non c’è timore a mostrarsi per quel che si è. Non tutte allo stesso livello, certo (non lo erano nemmeno quelle di Blonde On Blonde); ma tutte indistintamente capaci di farsi ricordare per un dettaglio, un’illuminazione, un brivido.
Le racconto, allora: un lato alla volta.
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like the leaves, like a butterfly
La prima cosa a lasciare senza parole è la vicinanza.
Change colpisce subito per l’immediatezza rauca della produzione e offre sensazioni tattili, nelle parole (“air”, “water”, “skin”) quanto nel calore del canto. L’ingresso di Meek, poi, è memorabile: la sua voce e quella di Lenker si incontrano, mentre lei sembra rivolgersi a un amore passato – lui o un altro, non è dato saperlo: e questo non fa che aggiungere altra intensità emotiva.
Già Time Escaping, però, è una variazione dal canone, con le acustiche preparate che svolgono una funzione puramente ritmica; ancora una volta, liriche e scelte armoniche ipotizzano una comunione con la natura, come immaginassero un’esistenza capace di sfuggire alla temporalità del corpo mortale. Accade pure in Spud Infinity, country rock gentile e giocoso dal ritornello risolto con facilità irrisoria; ma anche quando sta sul filo del nonsense, Lenker sa travolgere: nella sua vocalità acuminata, nella scrittura e nell’esecuzione si percepiscono l’imperfezione e l’autenticità di una conoscenza figlia di prove ed errori.
Primo instant classic della raccolta, Certainty è l’unico scritto con Meek, un folk-rock limpido quanto certe pepite 70’s – il controcanto maschile fa pensare a Cat Stevens – che sarebbe stato un highlight di uno qualunque dei lavori precedenti. Indicativo del modus operandi dei Big Thief, il pezzo è stato registrato tra portico e cucina durante un blackout di diversi giorni ai Flying Cloud Studios – al terzo tentativo, racconta Meek, prima di mangiare per cena pancake e salsicce preparati per colazione. Si sente chiaramente: la band intera è assorbita dall’emozione di essere lì in quel momento, ogni “you” vocalizzato dalla leader sembra un plurale e il tempo è tutto ora.
Il brano che dà il titolo al disco, di contro, è un folk di Tom Petty immaginato da Mark Hollis, per il modo in cui emerge dal mondo intorno e soffia insieme al vento; “It’s a little bit magic”, sussurra Lenker: nel provare tutto per vedere cosa succede, nei ghiaccioli spezzati che si fanno strumento, nel fremito delle spazzole sui piatti, nella pedal steel di Davidson. E poi finisce senza preavviso, preferendo un silenzio esterrefatto alla riproposizione di un tema che a quel punto sarebbe solo maniera.
i was inside of you
Sparrow apre il secondo lato del primo vinile con una struttura lineare priva di ritornello, narcolettica quanto certi Low e accesa dai cambi di registro della vocalist e dal riverbero del tack piano di Oleartchik.
Little Things, subito dopo, accelera: il drumkit esibisce suono secco e cuore in gola, mentre la voce si perde nella propria eco e ogni strumento in quello accanto; sembra che la canzone nasca durante l’esecuzione e le parole siano cavate a forza dalla gola dell’istante. Anche il testo parla di uno stato di totale fusione (“one step behind you / following you down / I was inside of you / kissing your mouth”), ma è di nuovo il riverbero a dare l’impressione di un ricordo malinconico: il presente non è altro che una cartolina da una New York affollata, tanto affollata che ogni altro volto sparisce. A un certo punto è come se i musicisti, ognuno perso nella propria trance, si dessero le spalle: anche così, però, continuano a suonare come se potessero intuirsi completamente.
Riverbero, dicevo: da sempre una parola chiave per la 4AD, etichetta che ha edificato la propria leggenda intorno a un’idea di suono fatta di non-detti e assenze – dai This Mortal Coil ai Red House Painters, dai Dead Can Dance ai Deerhunter, perfino dai Pixies a Helado Negro.
Flower Of Blood, in questo, è magistrale: un attacco che ricorda certe rarefazioni di Ocean Beach dei Painters, poi un tripudio di chitarre a volo d’uccello, elettriche che dialogano in un idioma misterioso per magnificare una melodia lenitiva – solo dopo ci si accorge del tambureggiare di Krivchenia in sottofondo, più jazz che rock. Pure il solo di chitarra è uno scheletro che sacrifica bello stile e comprensibilità all’altare dell’emozione, e in maniera del tutto naturale sfocia in Blurred View: atmosfera sinistra, impianto sonico poco definito e una produzione che fa suonare il pezzo come se la sua qualità deteriorasse davanti a chi ascolta.
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wake me up to drive, i don’t wanna miss the ride
Un disintegration loop che fa buio attorno a sé, e allora al principio del terzo lato c’è bisogno di sgranchirsi le gambe e chiarirsi la testa. Il giochino country Red Moon è decisamente d’aiuto, con quell’aria informale da Michelle Shocked circa Texas Campfire Tapes sublimata da un buffo “that’s my grandma!” ululato prima che entri il violino; il tempo non esiste, in queste praterie sterminate: avrà senso solo il giorno della fine, quando ci si accorgerà di star guardando l’ultima luna rossa.
In Dried Roses ci sono solo Lenker e Davidson, per una romanticheria da alba ancora assonnata, aspettando il risveglio di chi sta accanto; in No Reason, invece, ci sono tutti, per un brano pronto a ridurre in lacrime gli spettatori a ogni concerto, dolcezza rattristata di arpeggi elettroacustici cui il flauto di Richard Hardy aggiunge fascino campestre. Una nota: i brani dallo stile più classicamente Big Thief sembrano quelli dove alla bellezza bruciante dell’oggi si sostituiscono i ricordi ingialliti di ieri.
Poi, tra i tanti vertici di questo doppio torrenziale, è certo che Wake Me Up To Drive sia uno tra i momenti più imprevedibili e imprevedibilmente riusciti della scaletta. La melodia la scrive una fisarmonica distante, prima di essere travolta da un battito elettronico palesemente fuori tono che poi si dà una calmata, come se impiegasse un attimo per resettarsi e trovare un posto per sé; la voce resta calma sulle note medio-basse, ma ciò che quella voce ha da dire è il centro di tutto: una voglia insopprimibile di esperire, toccare, suonare la vita; di trovare magia e speranza e possibilità in ogni nuovo incontro; di stare svegli per sempre, anche se si è stanchi da morire.
Promise Is A Pendulum torna alla norma, numero acustico di quelli che aprono un encore imprevisto: la si riesce quasi a vedere, questa ragazza che cammina sola con lo sguardo all’asfalto mentre canta i propri pensieri; poi a un certo punto leva il capo, e le sue parole si mettono a raccontare il “fuori”, e sembra che quel mondo strano, fatto di volpi che ridono e venti che starnutiscono, sia indistinguibile dal “dentro”.
Nemmeno più a una pelle di distanza, ed è questa la ragione di tanto incanto.
what if all the worlds in space would melt into one single place
Di mezzo c’è da alzarsi per cambiare lato, ma nonostante la pausa la sobrietà di 12,000 Lines cozza con certa espansività appena ascoltata; ribadisce però un’impressione ricorrente, e cioè che nessuno dei musicisti abbia mai ascoltato uno di questi pezzi prima di provarlo, registrarlo e passare al successivo. Simulation Swarm, diversamente, è un brano d’impostazione pop, ma giusto nel battito ammiccante e nell’immediatezza della linea vocale; non certo in una struttura ancora una volta lineare che ingrossa scendendo a valle, nella voce che si slega e si libera, in un nuovo assolo scioglidita che non sa che farsene delle spiegazioni e della tecnica (magnificamente padroneggiata, sì, ma lasciata da parte per scelta). Poi la canzone se ne va dalla stanza, cogliendo di sorpresa i musicisti stessi: che abbozzano, prendono atto, concludono come possono.
Mancano solo tre pezzi, ormai, ma il trittico finale non suona come una chiusura quanto piuttosto come una nuova serie di dubbi, domande e porte aperte: Love Love Love è una specie di demo di Not, senza più nemmeno una vaga forma a irrigimentarla – rimane una jam elettrica tra il Neil Young di Weld e quello di Sleeps With Angels.
All’opposto dello spettro sta The Only Place, arpeggio per una chitarra e due voci che nell’imprevedibile progressione melodica del chorus vanta la solita capacità di far prendere alla canzone una direzione che solo Lenker può vedere. Chiude Blue Lightning, country feedback divertente e divertito che è in realtà una dichiarazione d’amore alla band: un elenco di cose – “I want to be the shoelace that you tie”, “I want to be the wrinkle in your eye” – di quelle che si teme di dire a qualcuno, e che poi, quando quello non c’è più, ci si pente di non aver detto, perchè non si sapeva che sarebbe stata l’ultima occasione.
Nel dubbio, Adrianne dice tutto.
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so much to share | una specie di epilogo
Parlando della perdita di contatto con la realtà al tempo del collasso dell’attenzione, Johann Hari citava lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi e i suoi studi sull’esperienza di flusso, uno stato mentale in cui l’individuo si trova completamente immerso in un’attività gratificante e significativa. Per sperimentare quella condizione, ricorda Hari, non basta togliere tutte le distrazioni, rimarrebbe il vuoto; ci vuole invece un obiettivo, uno solo, che abbia valore per il soggetto, e che il soggetto metta in gioco tutta la propria abilità. Dragon New Warm Mountain I Believe In You è l’esito di un flow state in cui, grazie al puro piacere di comporre, improvvisare e condividere gioie e vulnerabilità, quattro artisti costruiscono per sé una vita piena di senso e degna di essere vissuta, senza paura di assecondare le irregolarità della superficie ed esplorarne i crepacci pur di arrivare al nocciolo.
Uno scorrere spesso placido in cui si azzera la distanza fra l’ascoltatore e i luoghi abitati dal suono, queste venti canzoni sono un distillato di sessioni che ne avevano prodotte quarantacinque, più del doppio: ma non sono né la quantità dei pezzi né la loro qualità a colpire, quanto piuttosto un world-building di cui si ha consapevolezza solo quando se ne è fuori – e subito vi si vorrebbe rientrare.
Fa freddo, in certi angoli del mondo di Dragon, stanze spoglie e male illuminate che la 4AD ha visitato spesso nel passato anche recente: ma subito le voci e le corde arrivano a portare conforto, calore e prossimità, un messaggio in bottiglia con la scritta “nessuno è un’isola”. È un album esigente, questo, e non solo per la mole: ti impone le proprie bizze e i propri cambi di passo, ti nega belle copie in favore di versioni che sembrano prove appena abbozzate. E certo non saranno le canzoni a salvare il mondo, ma quelle dei Big Thief hanno la forza di materializzarne uno migliore.
Uno dove il tempo, la dedizione e la possibilità di un cuore puro non ci siano stati sottratti.
Autore: Big Thief
Titolo: Dragon New Warm Mountain I Believe In You
Etichetta: 4AD
Durata: 80′