Più vicino ancora. Two Hands dei Big Thief
“Lo scavo psicologico di Defoe non è mai così acuto come quando immagina la reazione di Robinson alla rottura della sua solitudine. Dopo averci fornito il primo ritratto realistico dell’individuo radicalmente isolato, d’un tratto, come costretto dalla verità romanzesca, ci mostra quanto l’individualismo radicale sia in realtà malato e folle. Possiamo difendere il nostro io finché vogliamo, ma basta una sola impronta a ricordarci i rischi eternamente interessanti delle relazioni autentiche” (L’isola più lontana, Jonathan Franzen)
Non sono un lettore vorace, sapete?
O almeno: non sono così affamato di letteratura quanto lo sia invece di musica o cinema, chiavi attraverso cui mi viene decisamente più facile aprirmi la porta dello stare al mondo e avvicinarmi agli altri. Macchine per l’empatia, le chiamava Roger Ebert.
Eppure, quando Giulio mi ha parlato di Più Lontano Ancora, raccolta di saggi brevi e questioni private di Jonathan Franzen, ho pensato che valesse la pena abbandonare le altre cose che trascinavo da qualche settimana: Ascoltare il Rumore di Damon Krukowski, prescindibile; il conseguente classico di Walter Benjamin, L’Opera d’Arte eccetera eccetera; la rilettura di No Logo di Naomi Klein, vent’anni dopo: fa quasi tenerezza, a pensarci, quello che ci atterriva allora, sapendo quel che è venuto poi.
Del resto – sempre parole di Giulio – Franzen ha la voce e lo spirito di Huck Finn, almeno ne Le Correzioni, romanzo della vita. E chi sono io per contraddire lui e la sua stordente libreria.
L’Isola Più Lontana – pezzo centrale della raccolta, apparso in origine sul New Yorker – è Más Afuera, a ottocento chilometri dalle coste del Cile.
Franzen ci si ritira durante la promozione di Libertà per riprendersi da un tour spersonalizzante che lo ha messo a confronto con l’arcinemico di tutti noi: la noia. Ci va solo, con una copia di Robinson Crusoe, una bussola, una cartina e le ceneri dell’amico David Foster Wallace, morto tre anni prima. Teoricamente ci sarebbe pure un uccello raro da vedere, il rayadito, ma qui sembra solo un altro pezzo del puzzle.
Un’esperienza oltranzista, tradotta al ritorno in una trentina di pagine in cui si affollano – ma ordinatissime, cristalline – riflessioni sul suicidio di DFW e sul confronto impietoso tra la sua immagine pubblica da santino e le lacerazioni private note solo a chi lo conosceva bene; analisi sull’importanza di Robinson Crusoe nell’ambito della storia del Romanzo come genere letterario e come primo esempio di esaltazione dell’individualismo; meditazioni vertiginose su concetti come tempo libero, intrattenimento, stimolo.
Ecco, è qui che Franzen inserisce la morte dell’amico nel contesto delle infinite possibilità dell’uomo contemporaneo, che ha portato alle estreme conseguenze l’individualismo radicale di Defoe per trasformare l’individuo in un’isola solo apparentemente autosufficiente.
Ha tutto e di più, quest’uomo, ma non trova senso (“essere tutto e anche di più è anche l’ambizione di internet”, si legge a un certo punto). Non sembra riuscire a stringere più nulla fra le mani.
I suoi consumi culturali ne sono la diretta conseguenza. Uno dopo l’altro, appiattiti, li ingolla senza soddisfazione, e un attimo dopo è come non fossero mai accaduti. È da qui, credo, che discende a sua volta la sensazione, netta, che spesso ai prodotti artistici dei nostri tempi manchi qualcosa, diciamo un’aura di necessità per chi li produce e per chi ne fruisce.
Poi, di tanto in tanto, capita dell’Arte che non si arrende alla trottola impazzita del tardo capitalismo. Che non si accontenta di essere prodotto. Che vuol dirti qualcosa su di te e sul tuo essere vivo, adesso, in mezzo agli altri e ai loro affanni.
È quell’Arte che ti fa sentire come se potessi essere altro da un semplice consumatore seriale annoiato, che ti tende la mano e ti mette voglia di fare lo stesso. Pagine come quelle di Jonathan Franzen, in cui vedi un uomo che trova nel proprio ragionare schietto e in una prosa millimetrica gli unici antidoti alla catastrofe. Pellicole su cui scorgi incisa la visione del mondo di chi le ha girate, come accade in Martin Eden di Pietro Marcello. Dischi in cui senti la voce di chi passa la notte a macerarsi nella domanda più difficile e urgente di tutte: non potremmo fare le cose in modo diverso?
È il caso di Kate Tempest e del suo The Books Of Traps And Lessons.
È il caso del memorabile Two Hands dei Big Thief.
Di Adrianne Lenker e della sua creatura mi aveva parlato per la prima volta Rosanna, che aveva scelto Capacity per inaugurare un pezzo sui suoi dieci dischi preferiti del 2017 (leggetela qui: è davvero intensa quando scrive di musica, anche se non lo fa spesso).
Ammetto di non averci fatto troppo caso, a un primo ascolto distratto. Non so quale bias annebbiasse il mio giudizio, allora, ma sono certo di averlo scambiato per un indie-rock chitarristico anonimo di cui pensavo non avrei sentito più il bisogno. O forse è solo che, per quanto abbia bisogno di guide e confronto, devo percepire mia una scoperta per apprezzarla davvero. Ma tant’è, era andata così.
È stato abysskiss, scarno lavoro solista del 2018, a schiudermi le porte al talento narrativo di Lenker e alla sua vocalità aerea – nel senso che il suono della sua voce si vede letteralmente galleggiare a mezz’aria fra lingua e palato, senza mai uno sforzo – e a prepararmi al meglio all’arrivo di UFOF, sognante prima release del 2019 per i Big Thief.
Un album splendido, che però è diventato centrale solo nel momento in cui ho avuto la fortuna di assistere al live della band al Primavera Sound 2019. La voce al centro di tutto e una band affiatata come una cosa sola, che di un palco veramente troppo grande sfruttava solo la minima parte, il necessario, raccogliendosi a semicerchio con Adrianne e il chitarrista Buck Meek in prima fila e la sezione ritmica – Max Oleartchik al basso, James Krivchenia alla batteria – appena dietro.
Un interplay favoloso, un’intensità rabbrividente. Un concerto di ruggine e fiori – davvero: fiori sul palco come ai tempi degli Smiths; un concerto di tre quarti d’ora che mi ha trasformato da scettico nel più adorante dei fan, pronto ad accogliere nuove rivelazioni.
E puntualmente, come se potessero leggere il mio cuore ansioso, i Big Thief hanno dato alle stampe un nuovo album a pochi mesi dal precedente. Pubblicato ancora con la leggendaria 4AD, Two Hands è il “gemello terreno” di UFOF, dieci tracce registrate in presa diretta dalla qualità media elevatissima e di una naturalezza disarmante.
Come se i musicisti avessero imparato a leggersi nel pensiero, basta che Lenker accenni un pezzo perché gli altri le vadano dietro tessendo trame di straordinaria luminosità. Se Forgotten Eyes e Shoulders incarnano il lato più indie-rock della faccenda, Not è una ruvida jam figlia del Neil Young di Everybody Knows This Is Nowhere che s’infuoca per sei minuti.
The Toy, Wolf e Replaced sono rarefatte, tanto delicate da farti trattenere il respiro per non disturbarle, ma il capolavoro è senza dubbio la title-track. In Two Hands l’incastro tra la voce, l’incalzare degli arpeggi e il picchiettare dei piatti della batteria raggiunge vertici di bellezza irrealistica; e finisce all’improvviso, prima che tu possa capire se sia accaduta per davvero.
Ma non basterebbe questo – e non basterebbero nemmeno testi carichi di empatia (i tossici di Forgotten Eyes, così tanto più corporei e reali di quelli cantati da St. Vincent nell’altrettanto meravigliosa Happy Birthday, Johnny) e di immagini cruente (vedasi Shoulders) – a fare di Two Hands dei Big Thief il disco più importante dell’anno.
Sarebbe “solamente” un album di canzoni straordinarie, e non è così.
A trasformarlo, a farlo trascendere, contribuiscono una registrazione che fa percepire ogni singolo sussulto degli strumenti, e una dedizione tale dei musicisti per ogni singola canzone che uno potrebbe scambiarla quasi per fede. E ancora prima di ascoltare ciò che stava dentro, c’era un dettaglio fuori che spiegava già tutto.
Alla fine dell’anno sarà tempo di tirare le somme di un decennio che in ambito cinematografico ha riservato meraviglie, e senza dubbio Mommy di Xavier Dolan sarà uno dei miei highlight.
Ricordate? Per la maggior parte del tempo, il film adottava un singolare formato quadrato al posto del consueto 16:9, consentendo al regista di mettere in scena l’isolamento e l’incomunicabilità inquadrando da vicino solo un personaggio alla volta. L’unico momento di vera serenità del film giunge quando Steve apre lo schermo, ampliandone il formato con le mani e riuscendo così a includere la sua intera famiglia.
Nella splendida immagine di copertina di Two Hands, invece, i Big Thief s’infilano tutti in quel quadrato minuscolo, come a dirti di entrare, che ci sarà posto anche per te. Quella che segue è la piccola storia di quando questo album mi ha aperto la porta per la prima volta.
Hollow-eyed on Eddie Street no sirens to hear
just trash and soiled needles clawing the veneer
and no crying but it is no less a tear
on the common cheek with which we smile
Hollow-eyed on Eddie, is it they or is it I
is it me who is more hollow as I’m quickly passing by?
and the poison is killing them, but then so am I
as I turn away
Scena.
Entro in casa dopo una giornata di lavoro; è tardo ottobre, fuori è ancora caldo. Appoggio le chiavi sulla mensola vicino alla porta, lascio lo zaino sul pavimento e metto dell’acqua a bollire, sdraiandomi sul divano con la faccia nel cuscino.
Il cuore è un po’ stanco, lo ammetto.
Stare “a cento” sempre e per tutti non è facile – e dovrò rassegnarmi all’idea che non sia il punto, esserci per tutti in un modo così stancante, per riuscire in qualche modo a star bene con me stesso. Non ci sono per nessuno, ora, non ci voglio essere: la socialità sa essere annichilente.
Dalla stanza a fianco arriva il suono di qualcuno che sta provando. Sento almeno due chitarre, un basso e una batteria che s’intrecciano e si scontrano, vanno avanti per un po’ e poi si fermano; qualcuno dà rapide istruzioni ma niente di più. L’impressione è quella di musicisti che, in tutta agilità, riescano a incastrare magia vera per due/tre minuti e poi si fermino, mai prigionieri della semplice bellezza estatica delle melodie – diventerebbe autocompiacimento, poi.
Allora mi alzo, appoggio la mano sulla maniglia, chiudo gli occhi ed entro per vedere che succede (prima un respiro forte: ricordate cosa diceva Franzen all’inizio, riguardo alle relazioni autentiche). E nella stanza ci sono loro – Adrianne, Buck, Max, James – che vedono me e tutto il mio scoramento: all’unisono, come se sapessero che è proprio quello di cui avrei bisogno in quel momento, attaccano Rock And Sing e, uno dopo l’altro, in diretta, tutti i pezzi di Two Hands. Pezzi in cui senti qualcuno che si sforza di offrirti tutto, nonostante sappia la fatica che comporta, perché i rapporti sono l’unica cosa che conti.
Mi siedo a terra ad ascoltare, per sempre rapito. Nonostante Adrianne sappia essere brutale – il suo urlo rauco fa tremar le vene e i polsi, tanto è strappato dal fondo della gola: e l’urlo è un’arte radicale che pochi hanno saputo padroneggiare rimanendo espressivi e comprensibili – le canzoni mi stringono a sé a confortarmi, perché “tutti abbiamo bisogno di una casa e tutti meritiamo protezione”.
Tra un pezzo e l’altro i ragazzi si prendono le pause necessarie, e sembrano volermi ricordare così che ogni singolo istante vale, e con ogni singolo istante dobbiamo imparare a fare i conti, vuoti inclusi.
Dura quaranta minuti. Quando riapro gli occhi, nella stanza è rimasto un vinile che fruscia e gira a vuoto, e aspetta solo che io lo fermi per ricominciare dall’inizio. Vorrei, ma non ce n’è bisogno ora: tutto quello che voglio è uscire e sentire il vento in faccia e l’elettricità sulla pelle e dire a chi ne abbia bisogno “andrà bene”.
Dopotutto, è quello che Two Hands ha fatto con me proprio quando ne avevo bisogno.
“Quando vi chiudete nella vostra stanza ad alimentare la rabbia, lo sdegno o l’indifferenza, come ho fatto io per tanti anni , il mondo e i suoi problemi vi sembrano impossibili da affrontare. Ma quando uscite e vi impegnate in un rapporto reale con persone reali, o anche solo con animali reali, correte il rischio molto reale di finire per amarne qualcuno. E allora chissà cosa potrebbe succedere?” (Il dolore non vi ucciderà, Jonathan Franzen)
Artista | Big Thief
Titolo | Two Hands
Etichetta | 4AD
Durata | 39’