William Basinski | Il presente è un nastro glorioso, in rovina

William Basinski | Il presente è un nastro glorioso, in rovina

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La magia del nastro. I loop di William Basinski
Foto da Wikimedia Commons di James Bastow (Flickr: 2011-04-26 kwartzlab Tuesday Open Night, CC BY-SA 2.0)

“Ho assistito a performance, soprattutto di musica pop, in cui il desiderio dell’artista di accontentare il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo e alla fine tanto fastidioso che non si riesce più ad ascoltare la musica. D’altro canto sono stato a concerti in cui l’artista si sforza di entrare in una sorta di trance e finisce per ignorare del tutto il pubblico, probabilmente per fornire una versione più profonda di una canzone o di un brano. Quando accade ho la sensazione che tanto varrebbe tornarsene a casa e mettere su il disco, che quasi sempre suona meglio. In tal senso sono d’accordo con Gould: se il fine dell’esecuzione è la perfezione, allora forse la si raggiunge più efficacemente in studio, con l’ausilio del montaggio e del taglia e cuci” (David Byrne, Come funziona la musica)

Mi basta alzare di poco lo sguardo sopra il tavolo su cui sto chino a scrivere questo pezzo per essere investito dalla magia della musica registrata su un supporto fisico.

In questa piccola stanzetta in cui vivo c’è posto per poco altro che non siano CD e vinili, che rendono evidente a chiunque come io sia figlio di un’epoca passata, che non esiste più e non ritornerà. Non lo dico con nostalgia: il mio unico problema con la musica on demand in streaming è l’ignobile miseria che guadagnano gli artisti a fronte del paradiso che questi servizi promettono al consumatore (“promettono” è la parola giusta, fidatevi); una stortura economica e culturale da sconvolgere con tutti i mezzi che abbiamo – anche con piccoli atti di resistenza: comprate musica analogica e digitale su Bandcamp, invece di accontentarvi dell’all you can eat predeterminato di Spotify.

Non è però questa la sede in cui voglio tediarvi con tutto un rimuginare accartocciato intorno alla stagnazione del tardocapitalismo, che è lì da vedere. Piuttosto voglio dirvi qualcosa sul potere evocativo, sovversivo e creativo dell’atto della registrazione, e in particolare della registrazione su nastro magnetico.

Ci riflettevo giusto un paio di giorni fa mentre riascoltavo Bitches Brew di Miles Davis e accompagnavo quell’ipnotico flusso di suoni da un altro mondo alla lettura del saggio a tema di George Grella – uscito lo scorso anno qui da noi per Minimum Fax, consigliatissimo. E ridevo di gusto al pensiero di quei critici scandalizzati dall’ascolto di In A Silent Way, di fatto il primo album di Davis a mostrare esplicitamente la propria artificiosità di opera d’arte tecnicamente riproducibile: era tutto frutto di un montaggio ex post, un lavoro spalla a spalla con il geniale produttore Teo Macero. Praticamente un’eresia, per i jazzofili, e infatti Lester Bangs lo adorava.

Bitches Brew fu ancora più radicale.

Nessuno degli strumentisti – gente come Jack DeJohnette, Joe Zawinul, Chick Corea, Dave Holland, Wayne Shorter e John McLaughlin – aveva idea di quale sarebbe stato il risultato finale: Miles li faceva suonare insieme per una decina di minuti alla volta, dando solo poche istruzioni, e poi passava alla take successiva.

Solo qualche anno prima i Beatles e i Beach Boys avevano portato alle estreme conseguenze l’uso dello studio di registrazione nella musica pop, eppure lì si parlava ancora di raffinamento della forma canzone, con trucchi meravigliosi e rivoluzionari; in Bitches Brew, invece, i nastri registrati diventano lo strumento compositivo principale. La cosa più bella che ho scoperto leggendo Grella: tutti suonavano insieme in sala d’incisione, ma erano microfonati separatamente; quando li riascolti su disco sembrano a eoni di distanza l’uno dall’altro, perché Macero poteva prendere le tracce dei singoli strumenti e posizionarle nello spazio come voleva.

Il secondo più grande successo commerciale della storia del jazz è un album che non è mai stato suonato così come lo sentite. Sono chilometri e chilometri di nastro tagliati e incollati.

Magie del nastro. Da Bitches Brew a Basinski

“Holger è stato probabilmente il miglior editor di nastri in cui mi sia mai imbattuto. Poteva avere 90 o 100 pezzi di nastro su un tavolo, ed era capace di rimetterli insieme alla perfezione, come per magia, per ottenerne musica. In quello, era davvero un maestro assoluto” (René Tinner)

“Nastro” è una parola chiave anche nell’avventura dei Can, la più straordinaria band che l’Europa abbia mai conosciuto.

Straordinaria nel senso di “fuori dall’ordinario”: quattro tedeschi con un background variabile (dall’avanguardia al free-jazz, dalla psichedelia al rock) che si incontrano prima con un cantante americano e poi, mentre ne cercano il sostituto perché quello è andato fuori di testa durante un concerto in cui ha ripetuto per ore “upstairs / downstairs” al microfono, con un tizio giapponese che sta recitando preghiere al Sole seduto in mezzo alla strada, proprio vicino al café dove la band sta aspettando l’ora di salire sul palco. Origin story più assurda e bella di sempre, per quel che mi riguarda.

Con Damo Suzuki alla voce, Jaki Liebezeit (il batterista più simile a una drum machine che ascolterete mai), Irmin Schmidt (tastiere), Michael Karoli (chitarra) e Holger Czukay (basso, interferenze e sortilegi vari) trovano la quadra perfetta di un suono costruito a partire da jam interminabili. Groove acidi, alla candeggina, capaci di durare dieci-venti minuti, per declamazioni belluine come colpi di karate: il decennio dal 1968 al 1977 dei Can è uno dei più influenti di tutto il Novecento, al livello dei Velvet Underground – volete una delle conseguenze? Non esistono i ritmi meccanici dei Joy Division, senza di loro.

Ogni incisione dei Can sembra un’istantanea catturata da qualcuno che passa davanti a una sala prove dove si sta srotolando un pezzo interminabile, che va avanti da sempre e andrà avanti per sempre – Halleluwah dura diciotto minuti, ma potrebbe essere un solo, piccolo frammento osseo di una bestia di proporzioni bibliche. Oltre ai deliri di Suzuki, noti subito la gran sezione ritmica e i giri di basso, e dunque non è facile sottostimare il contributo di Czukay a quel rituale collettivo.




E tuttavia, col tempo, questo favoloso dilettante inizia a preferire alle quattro corde quella che lui chiama Weltempfänger, una postazione zeppa di radio, telefoni e registratori a nastro da cui produce suoni destinati a intrecciarsi con il rauco live sound della band. Eccola qui, la fonte primaria dell’ispirazione per i Radiohead di The National Anthem. Ma che quella di “Internet umano”, di geniale aggregatore e manipolatore di suoni preregistrati fosse la sua strada si era già capito già nel sessantotto, con la pubblicazione di un lavoro strano e affascinante chiamato Canaxis.

Czukay lo registra di notte e di nascosto agli Electronic Music Studios di Karlheinz Stockhausen, il grande compositore di cui il Nostro è allievo e che lo ha iniziato ai misteri del tape editing. Lì dentro, al principio, sta Boat-Woman Song, peperonata a colazione che mette insieme elettronica dei primordi, nastri di musica sacra corale e canti vietnamiti recuperati da una radio. È un esperimento di montaggio sonoro arditissimo, figlio anche delle ovvie limitazioni tecniche dell’epoca: eppure è coinvolgente, emozionante, sia per le modalità di realizzazione – immaginatevi queste centinaia di frammenti sparsi per lo studio, e Czukay a studiarli come un paleografo per poi tagliarli e incollarli con le mani – che per il risultato finale, stordente quanto le mille voci sovrapposte delle Sirene di Demetrio Stratos.

L’effetto dell’opera di Czukay è cinematografico, proprio perché – come al cinema – la tecnica del montaggio viene usata per convogliare un’emozione, per dire quello che le parole non possono e non vogliono dire. C’è un meraviglioso cofanetto in cinque CD uscito giusto un paio di anni fa che cerca di fare ordine nella variegata discografia del musicista tedesca: si chiama Cinema, e non è un caso.

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Magie del nastro. I Can di Holger Czukay

“Magari può sembrare strano affermare che una cultura come la nostra, tanto dominata dalle forme passate, soffra di amnesia, ma il genere di nostalgia oggi così pervasiva può essere immaginato non come brama del passato, ma come incapacità di generare nuovi ricordi. Fredric Jameson ha descritto una delle impasse della cultura postmoderna come l’inabilità di mettere a fuoco il nostro stesso presente, come se fossimo diventati incapaci di concepire delle rappresentazioni estetiche della nostra esperienza attuale” (Mark Fisher, Spettri della mia vita)

Qualunque millennial ricorda dove stesse, il giorno in cui due aerei si infilarono nelle Torri Gemelle.

Per me era il primo pomeriggio dell’ultimo anno di Liceo e me ne stavo stravaccato sul divano di casa a fare zapping tra i canali della tv, quando tutte le trasmissioni si fermarono. Me ne stavo lì, sotto shock, perché un evento simile era fuori dalla mia possibilità di comprensione; non era psicologicamente accettabile: non intendo solo e soltanto l’attentato in sé, ma proprio il fatto che solide certezze e un’intera visione del mondo si stessero sgretolando e io ne avessi una testimonianza video, che lo stessi guardando.
Poi vennero le telefonate incredule agli amici, le mani nei capelli, le discussioni in classe la mattina dopo, i ciellini che infestavano la mia scuola carichissimi all’idea della vendetta e del sangue (pure loro), gli editoriali xenofobi di Oriana Fallaci, l’inesorabile spostamento a destra della discussione pubblica e delle sue stesse modalità – puoi davvero parlare in modo violento senza diventare un violento?

Ma al di là di tutto questo, mi rendo conto che quel che mi è davvero rimasto di quel giorno – ciò che non se ne andrà mai – è il senso di testimonianza di una fine. E niente come i Disintegration Loops del compositore William Basinski sembra capace di richiamare alla memoria e descrivere nel dettaglio quella sensazione.

Texano d’origine e classe 1958, Basinski ha una formazione musicale accademica che lo porterebbe a una brillante carriera da strumentista, ma quello che gli altri desiderano per lui non è quello che il ragazzo desidera per sé. Gli insegnanti vorrebbero che fosse un clarinettista da prima fila nella New York Philarmonic, lui vorrebbe essere David Bowie – da qui, immagino, la passione smodata per outfit fiammeggianti, peculiari, inguaribilmente tamarri. È l’incontro con l’avanguardia di John Cage e il minimalismo ripetitivo di Steve Reich a indicargli la strada: “capii che non c’era bisogno di scrivere tutto su carta per fare musica. E che si poteva usare la radio e qualunque altra cosa si desiderasse, perfino il silenzio”.

E dunque, per decenni, Basinski accumula nei propri archivi tonnellate di registrazioni delle fonti più disparate, mentre la sua visione prende forma – il suo primo vero album arriva solo nel 1998 e si chiama, didascalicamente, Shortwavemusic.
La sua idea di musica è cristallina: prendere frammenti di nastro significativi e mandarli in loop, manipolandoli lo stretto necessario a raggiungere il risultato desiderato. Sembrerebbe una noia mortale, ascoltare per minuti e minuti delle tracce che di fatto sono ripetizioni di figure brevissime: l’orecchio assoluto di Basinski, però, sta nella capacità di colpire al cuore e stimolare il pensiero pur con pochissimo a disposizione e senza mai dare l’impressione di fare arte per il puro piacere dell’iper-concettualismo.

Arriva così la sua opera capitale, quella che l’ha reso famoso anche a chi – come me – di musica ambientale non abbia che poche conoscenze sparse, esattamente come quasi chiunque conosce o ha sentito nominare almeno una volta nella vita la Sinfonia no.3 di Gorecki pur senza essere un appassionato di classica.

Basinski finisce di registrare i Disintegration Loops a New York proprio la mattina dell’11 settembre 2001, e incredibilmente quei lunghi frammenti di tempo incisi su nastro diventano la colonna sonora perfettamente adeguata a un presente che va in pezzi mentre lo guardi.

La genesi di quei suoni è ormai nota: l’artista si accorge che alcuni dei nastri che sta trasferendo su supporto digitale degradano di qualità mentre vengono riprodotti, letteralmente disintegrandosi. Quello che ascoltiamo nei Disintegration Loops, allora, sono semplicemente minuscoli temi sonori ripetuti per ampi spazi di tempo e che man mano si deteriorano. Per intenderci: nel primo volume, il loop dura meno di sette secondi e viene mandato in circolo per un’ora; un suono che ricorda i fiati per un funerale e che si fa sempre più crepitante, disturbato e distante, come l’effetto Doppler di un corteo che si allontana lasciando solo il ricordo della tragedia avvenuta. Come il diradarsi della polvere sulle macerie del World Trade Center.

I Disintegration Loops non sono un lavoro sul tempo, ma piuttosto il tempo al lavoro.
Il tempo che suona la propria sinfonia – malinconica, bellissima – in un nastro sempre più rovinato.

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Magie del nastro. I Disintegration Loops di William Basinski

“Vedendo i filmati che il nonno aveva girato sul ghiacciaio, una volta gli dissi che avrebbe anche potuto riprendere la nonna più spesso. La nonna era stata giovane una volta sola, mentre il ghiacciaio e il panorama avrebbe sempre potuto filmarli. Mi sbagliavo. Il ghiacciaio si è rivelato effimero quanto gli umani. I filmati del nonno sono testimonianze preziose di un paesaggio che non esisterà ancora a lungo. Se mia figlia più piccola arriverà all’età della nonna, sarà ancora viva nel 2103. Pensare a un futuro così lontano è vera e propria fantascienza. A allora lo Skeiðarárjökull sarà sparito da tempo, il Langjökull in gran parte e così pure lo Hofsjökull. Là dove il ghiacciaio si stagliava contro il cielo ci sarà solo cielo” (Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua)

Per quanto il nome di William Basinski resterà per sempre legato ai Disintegration Loops, nel corso degli anni l’ombra di quel mastodonte non ha influito tanto sulla qualità media delle opere dell’artista, quanto piuttosto sulla loro percezione.
Per molti – anche fra gli addetti ai lavori – per qualificare un nuovo album di Basinski è sufficiente considerarne le premesse: A Shadow In Time finisce così per essere catalogato alla voce “tributo a David Bowie” e rapidamente dimenticato, dopo gli elogi di circostanza; On Time Out Of Time è una collaborazione con il LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) che campiona il suono di due buchi neri entrati in collisione 1.3 miliardi di anni fa. E invece non basta, perché questi dischi – non tutti ugualmente riusciti, ovvio – hanno una capacità fuori dal comune di dire senza dire, di emozionare e di evocare: suonano immateriali e impalpabili, eppure tengono le mani nel ventre caldo dell’universo.

Il nuovo Lamentations mi è capitato per le mani insieme al numero di Wire di novembre – che vantava un Basinski in versione ultra-glam in copertina – e a quell’atto d’amore nei confronti del nostro pianeta lungo trecento pagine e chiamato Il Tempo e l’Acqua.
Costruito su una serie di loop recuperati tra gli scarti di materiale che risale perfino a quarant’anni fa, Lamentations non ha niente di biblico: è piuttosto un grido d’accusa nei confronti di un’umanità incapace di invertire la rotta, di togliersi dal piano inclinato in cui si è cacciata da sé – “uno stupro e un saccheggio di migliaia di anni, e ora guardate dove siamo”. Un gesto creativo rabbioso, politico e toccante, dato alle stampe proprio mentre si spera vadano spegnendosi in dissolvenza gli ultimi fuochi dell’era Trump; un gesto creativo dal notevole impatto simbolico, con il passato (il nastro) che arriva in soccorso di un presente cui sembrano mancare le parole per descrivere il nero cristallo in cui siamo tutti precipitati.




Lasciano subito attoniti i toni cinerei di For Whom The Bell Tolls, almeno quanto il barrito preistorico di The Wheel Of Fortune o il pianoforte riverberato nel vuoto cosmico di Tear Vial – che qualcuno non resisterebbe ad appiccicare su un battito trip-hop, e invece qui non c’è altro.
Ce ne sarebbe abbastanza, anche solo in questo primo lato e poi in brani come Punch And Judy o Silent Spring, per credere che in Lamentations non ci sia spazio per qualcosa che non sia pessimismo, ma non è così: O, My Daughter, O, My Sorrow cerca e trova una catarsi umanista nel sample di una voce che si fa largo tra le rovine. Come in Czukay, anche qui la qualità del materiale è cinematografica: non vediamo più nulla intorno a noi, ci muoviamo a tentoni; d’improvviso distinguiamo qualcosa muoversi in lontananza, e dalla foschia emergono i tratti via via più definiti di una figura che si avvicina, il passo incerto ma la voce sempre più calda e presente.
È una specie di anticipazione per quanto incontreremo più avanti, giusto nell’ultima delle quattro facciate del doppio vinile.

Dura undici minuti ed è eccessiva, traboccante di emozione sin dal titolo, All These Too, I, I Love. Il vibrato di una cantante d’opera accende una torcia nel buio, come a implorarci di smettere, di fermarci finché siamo ancora in tempo, mentre tutto intorno l’acqua sale e le crepe del nastro aumentano di volume, assumendo le sembianze di fuochi d’artificio, spari e infine rimbombi di esplosioni – il suono di un iceberg che si scioglie e velocemente muore. Esattamente come Magnason nel suo pamphlet ambientalista, in questo brano Basinski non è interessato a mostrare ciò che è già ovvio (i dati, l’evidenza scientifica) e non riesce a smuovere coscienze assopite; piuttosto, sembra voler prendere per mano l’ascoltatore e fargli esperire emotivamente quali siano le reali conseguenze di tutto questo; quanta meraviglia, bellezza e vita stiano andando perdute per sempre.

Non basterà certo un loop a portare cuori e teste dalla parte giusta, in un mondo che trasforma in meme pure gli skolstrejk för klimatet. Ma questo non cambia la realtà delle cose, e che sia un vecchio nastro in rovina a sfidare il pensiero apatico comune è ancora più commovente.

“Il vostro arco di tempo è il tempo di qualcuno che conoscete e a cui volete bene e che vi lascia un segno, e il tempo di qualcuno che conoscerete e a cui vorrete bene, il tempo su cui voi lascerete un segno. Qualsiasi cosa facciate ha una sua importanza. Voi create il futuro ogni giorno che passa” (Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua)

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