Barney Panofsky, un adorabile bastardo
L’intenzione originaria era quella di scrivere una recensione degna di questo nome, di sfoggiare le mie migliori perifrasi e, perché no, di infilarci pure qualche congiuntivo corretto. E invece. Invece è successo che qualche notte fa ho letto l’ultima pagina de La versione di Barney di Mordecai Richler e da allora non riesco a togliermelo dalla testa.
Ho provato a scacciare il fresco ricordo di quel romanzo iniziandone subito un altro, nella speranza che il buon vecchio metodo del chiodoscacciachiodo avesse anche solo una piccola, minuscola validità anche sulla sottoscritta. Macché.
Rassegnata alla convivenza con questo tarlo, ho deciso di raccontarvi, rigorosamente in ordine sparso, alcuni motivi per cui La versione di Barney mi ha letteralmente conquistato. Anche il film è ben fatto e prima di azzardarmi a scriverlo, ho chiesto conferma al sommo Ale Pig, il quale ha concesso un rarissimo “non è male” che agli occhi dei comuni mortali rappresenta più o meno un capolavoro.
Tanto per cominciare, Barney Panofsky è semplicemente un adorabile bastardo. Ci ho provato, vi giuro che ci ho provato a inventarmi un giro di parole o un francesismo più adeguato. Ma la verità è che non esiste definizione più appropriata di questa per descrivere il protagonista del romanzo: Barney Panofsky è semplicemente un adorabile bastardo.
Richler ha creato un personaggio indimenticabile, un essere impuro, l’antieroe per definizione, la persona meno politically correct che vorreste incontrare nella vostra vita. Perennemente accompagnato da un Montecristo, affoga i suoi pensieri tormentati in bicchieri di whiskey che ordina senza ritegno uno via l’altro, facendo dei peggiori bar di Montreal il fulcro dei suoi traffici. Due divorzi e un’accusa di omicidio non lo rendono esattamente un ebreo modello. Ha fondato una compagnia televisiva specializzata nel produrre pellicole di infima lega, dandole un nome che non potesse concedere alcun beneficio del dubbio: la Totally Unnecessary Production.
Il lettore conosce un Barney Panofsky ormai anziano, che confonde i periodi della propria vita, che si esalta quando ricorda 5 dei nomi dei 7 Nani e non esita a svegliare suo figlio Mike nel cuore della notte per chiedergli: “Come si chiama quel coso con cui si prende il minestrone?”.
E uno degli aspetti più grandiosi di questo romanzo è proprio il filtro della vecchiaia da cui è costretto a passare il lettore per conoscere la storia. Per arrivare all’ultima pagina, infatti, non si può far altro che seguire i voli pindarici di Barney, i suoi flashback senza logica apparente, i suoi malinconici e divertenti excursus sulla propria gioventù bohèmienne Parigina, le sue perdite di memoria semprepiù frequenti: il lettore non ha scampo. Ed è stupendo finire in trappola, seguirlo nelle sue storie ingarbugliate, assetate di vita e dal sarcasmo brillante, fino a ritrovarsi a soffocare le risate sul tram che ti porta al lavoro (true story).
Contrariamente al pensiero della Seconda Signora Panofsky, così irrilevante nella vita del protagonista da non meritare neppure di essere chiamata con il nome proprio, Barney non ha “un grumo di rabbia al posto del cuore”. E lo scopriamo nel momento stesso in cui incontra la donna della sua vita, Miriam. “Oh, Miriam. Mia adorata Miriam”. Ecco allora che il personaggio burbero e inesorabilmente scorretto che pensavamo ormai di conoscere bene, ci appare sotto una luce completamente diversa, che lo rende semplicemente umano.
La versione di Barney non è soltanto l’autobiografia di un ebreo canadese alla soglia della demenza senile che cerca di dimostrare ai posteri la propria innocenza riguardo al delitto di cui è accusato. La versione di Barney è anche la storia di un amore perduto, raccontato attraverso la consapevolezza della fortuna inestimabile di aver avuto accanto una donna come Miriam per trenta lunghissimi anni, aver costruito una famiglia con lei e di non averla saputa valorizzare, attanagliato dal timore di non essere alla sua altezza, di non meritarla fino in fondo.
Proprio così, il fiero e sarcastico Barney Panofsky, in realtà, viveva nel terrore che Dio (o chi per lui) venisse a presentargli il conto, una sorta di risarcimento, per avergli concesso Miriam per tutto quel tempo. Ed è con le lacrime agli occhi che leggerete i suoi onnipresenti “Oh Miriam, mia adorata Miriam” tra un bicchiere di whiskey e l’eccesso di livore verso il malcapitato di turno.
Richler ha scritto un piccolo capolavoro irriverente. Non mi permetto di fare paragoni con le pietre miliari della letteratura, ma ritengo senza dubbio che sia uno dei migliori romanzi che mi sia capitato di leggere negli ultimi dieci anni. E mi piace pensare che quelle voci di corridoio che vorrebbero Barney Panofsky come l’alter ego di Mordecai Richler abbiano, in realtà, un fondo di verità. Non posso credere, infatti, che quell’adorabile bastardo non sia mai esistito in carne ed ossa.
Ah, quasi dimenticavo. Il finale. IL FINALE, GENTE! Correte in libreria anche solo per arrivare all’ultima pagina e dire “no vabbè, geniale”.
titolo | La versione di Barney
autore | Mordecai Richler
editore | Adelphi
anno | 1997
[…] Finalmente una domanda nella quale non farò la figura di una nullafacente incapace di fare qualsiasi cosa che non sia scrivere su una pagina Facebook. Li dico con convinzione, sono il mio non plus ultra letterario e le mie guide di vita. Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, Le ceneri di Angela di Frank McCourt, Cassandra di Christa Wolf, Memorie d’una ragazza perbene di Simone de Beauvoir e La versione di Barney di Mordecai Richler. […]
[…] uno dei libri che ho più amato finora. Di quanto mi abbia conquistato Barney Panofksy ne ho già parlato a lungo e non voglio tediarvi oltre. Ma vi consiglio di regalarlo a chi si merita una lettura irriverente, […]