Barbie fra i due mondi

Barbie fra i due mondi

Margot Robbie in Barbie
Io che canto così in macchina, sempre

Cosa avrebbe pensato Mark Fisher di questo Barbie? Ok, lo so, può sembrare una domanda oziosa (wait, ma voi ogni volta che prendete una decisione non vi chiedete cosa avrebbe scelto Fisher? Cioè, quando siete al supermercato e comprate un nuovo dentifricio, non vi fate questa domanda? Ah no?), ma rappresenta in maniera piuttosto chiara la dualità del film di Greta Gerwig.

[Seguono altre domande come: Fisher nel 2023 sarebbe un vecchiodimmerda™ che schiuma contro la cultura woke? Ma di queste ci occuperemo in altro momento]

La dualità, dicevamo, di Barbie e di qualunque ragionamento sul film stesso. Esattamente come il mondo creato dalla regista è diviso fra una realtà reale e Barbieland, lo strepitoso mondo colorato e matriarcale dove vivono le vere bambole, anche il nostro ragionamento deve necessariamente scindersi per affrontare il film e il film nel suo contesto.

Da un lato abbiamo il film: è bello, rutilante, manda messaggi che vorremmo vedere più spesso nel cinema mainstream, fa ridere di gusto; dall’altro abbiamo il contesto commerciale, il product placement brutale, l’indulgenza verso Mattel. Quanto sono scindibili questi due aspetti? Non è facile rispondere, checché ne pensi Fisher.

SIGLA!

 

Cominciamo dal principio. Il film è bello. Full stop.

Fa ridere come non ridevo al cinema da anni, con battute per ogni livello (si va letteralmente dalla cacca a una battuta sullo Snyder Cut in cui in sala da me hanno riso in 3, me compreso); la sceneggiatura è vincente (Greta Gerwig insieme al compagno di una vita Noam Baumbach), non tanto per i dialoghi spesso didascalici quando vogliono spiegare il messaggio principale (ma oh, è fatto per gli americani, cioè devi affettargli un po’ tutto a fette grosse), quanto nell’idea e nella realizzazione: immaginare un matriarcato in cui Barbie sa di essere Barbie e come tale si comporta (esce di casa volando perché le bambine la fanno uscire così; la casa è ovviamente aperta, perché per giocarci devi guardarci dentro ecc.), ma ha un’idea errata di come il mondo sia stato influenzato dalla sua presenza è già di per sé strepitoso.

Barbie sa di essere una bambola; sa che esiste un mondo reale, altrove; ciò che non sa è che la sua idea di questo mondo reale è fallace e basata su presupposti errati. Il cultural clash che poi avviene quando i mondi collidono è spassoso e commovente allo stesso tempo. Similmente, l’idea che Ken possa “importare” il patriarcato (e i cavalli!) a Barbieland mi ha spiazzato per la vivacità dell’idea.

I costumi e le musiche sono semplicemente perfetti – da giorni sto cantando “I’m just Ken” ad alta voce – e il film riesce a strizzare l’occhio a moltissime culture diverse, stratificando il possibile pubblico: ci sono chiari riferimenti a Kubrick (vabbè, la sequenza iniziale è pazzesca), al Mago di Oz, a Grease; ma soprattutto ci sono strizzate d’occhio a quelle persone che con le bambole ci hanno veramente giocato!

La mia compagna, pur non essendo esattamente il tipo da Barbie, uscendo dal cinema, mi ha confermato che, quando si iniziava a tagliare i capelli a caso alla bambola e a truccarla male, poi le si facevano fare anche altre cose strane, validando la nascita del personaggio di Weird Barbie. E come lei, immagino, milioni di altre persone. Inoltre, a Barbieland nonostante i vestiti siano pazzeschi, non c’è alcuna sessualizzazione del corpo (femminile), esattamente come avviene con le bambole, e anche questo per me è un risultato notevolissimo.

Margot Robbie's Barbie
Lei è Margot ed è perfetta
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Menzione a parte meritano le interpretazioni degli attori principali. Margot Robbie e Ryan Gosling ci regalano probabilmente l’interpretazione della vita. Gosling è nel suo ruolo perfetto (molto più a suo agio nei ruoli da commedia, incredibilmente), perennemente sopra le righe e riesce a rubarsi la scena in più occasioni, a discapito anche di Margot Robbie. Quest’ultima mette se stessa completamente nel personaggio, come pare faccia con ogni sua interpretazione.

La Barbie che ne esce è strepitosa, con una recitazione molto più misurata e in sottrazione di quella di Gosling, dove la bravura emerge nei dettagli e nei movimenti, negli angoli delle braccia e nei sorrisi. Basterebbe la differenza che riesce ad imprimere nella medesima espressione (il sorriso) all’inizio del film ed alla fine, quando la sua trasformazione da Pinocchio rosa a essere umano è completa, per rendere l’interpretazione superlativa.

Sul messaggio femminista non mi pronuncio perché non ho le competenze per farlo, al netto di un certo didascalismo (ma, come dicevamo, pure gli americani devono capirci qualcosa, no?). Diciamo solo che il fatto che le critiche negative vengano tutte da vecchi scureggioni™ che berciano contro la cultura woke e bruciano bambole nel loro giardino di casa (ciao Ben, ecco i kleenex; come dice Barbie nel film: piangere è ok) o da uomini che fanno mansplaining spiegando che la visione del mansplaining di Barbie è tutta sbagliata (mansplainception!), mi fa pensare che forse forse il messaggio sia quello buono. E pure io ho suonato la chitarra e questo mi fa molto riflettere, sappiatelo.

Ryan Gosling's Ken
Lui è Ryan ed è uno di noi
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Un film quindi ottimo, in quanto tale, divertente e acuto, con un messaggio positivo, con delle coreografie stupende, che solo sul finale forse si ammorbidisce un po’ nella sua critica. E qui emerge il problema col contesto, la grande bambola nella stanza. È possibile fare critica anticapitalista nell’ambito di un prodotto chiaramente capitalista e volto al commercio di nuovi brand e prodotti? È possibile fare una critica femminista al patriarcato da parte di una bambola che è cresciuta nel solco del patriarcato? È possibile criticare la Mattel che infine paga il film e che otterrà guadagni infiniti da questo (ci sono già le bambole di Margot Robbie in commercio)?

Infine, è possibile scindere il film dal suo contesto sociale, dalla sua produzione, dal suo fine ultimo (l’incasso)? Non ho una risposta chiara ed esatta. Forse Fisher, che scomodo sempre a guisa di mio piccolo nume filosofico moderno, avrebbe parlato del capitalismo degli anticapitalisti (che in bocca sua è un concetto un filo più impegnativo del “fascismo degli antifascisti” con cui si riempiono la bocca i fascidimmerda scureggioni™ alle nostre latitudini) e di come il capitalismo ormai contenga ed inglobi anche l’anticapitalismo, senza una possibilità di uscita.

È vero, molto probabilmente. È anche vero che è impossibile pensare un film di Hollywood che non punti al profitto (e va pure bene così, ci mancherebbe) e una corporation come Mattel che non voglia vendere una bambola in più, anche se questo vuol dire prendersi in giro nella maniera più aperta e chiara possibile. È anche vero che Barbie è il film diretto da una donna che ha fatto l’incasso più alto al botteghino nel primo weekend, quello che conta. E che gran parte dei discorsi sul ruolo della donna sono reali ed importanti da affermare, come trasmette in maniera (finanche eccessiva) America Ferrera, nota anche per aver partecipato molto attivamente alla campagna #metoo. Il fatto che i soldi che producono il film siano di una major, rende meno importante il messaggio? Non direi. Ma io sono solo un maschio bianco etero e ci capisco davvero poco.

In fin dei conti Marx è morto, Fisher è morto e pure noi ci apprestiamo a raggiungere la nostra apocalisse termica nel giro di qualche anno. Forse sono solo indulgente perché il film mi è piaciuto, ma è sicuramente un bel film e questo vale qualcosa. E poi fa piangere i Pillon del caso e pure questo qualcosa vale!



Titolo | Barbie
Regista | Greta Gerwing
Uscita | 2023

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