Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione. È tornato Marc Ribot
La composizione e l’arte non vivono in astratto, su un pezzo di carta o ancora come concetto. Dipendono davvero molto da ciò che suona bene in quel momento, in quella stanza, davanti a quei microfoni. Includendo ovviamente quel preciso istante della Storia. Quella è un’altra cosa che è cambiata: avevamo un disco pronto per tre quarti e completamente differente, quando Donald Trump è stato eletto. E per quanto non sia felice dell’elezione di Trump, sono contento che abbiamo riconsiderato ciò che doveva essere pubblicato e l’abbiamo registrato di nuovo. (Da un’intervista ad Aquarium Drunkard)
Marc Ribot è uno di quei nomi in cui, per quanto poco abbiate seguito le traiettoria della musica pop-rock e d’avanguardia degli ultimi (diciamo) trent’anni, in qualche modo e per forza di cose vi siete imbattuti. Un preziosissimo collaboratore e rifinitore, oltre che autore: è la sua chitarra – sempre riconoscibile – a squillare e borbottare in quelle trottole impazzite di fango, ossa e meraviglia che sono le opere del secondo Tom Waits (da Rain Dogs a Bad As Me, passando per Mule Variations e Real Gone); è la sua chitarra il suono cristallino che si apprezza in Raising Sand di Robert Plant e Allison Krauss o nello splendido Easy Come, Easy Go di Marianne Faithfull e in parecchi album di Vinicio Capossela.
Ma sono pure rumore e sperimentazione, eresia e anarchia, a dare la cifra dell’Artista: nel Pranzo Oltranzista di Mike Patton, negli innumerevoli Filmworks di John Zorn, nei dischi di John Lurie con e senza i Lounge Lizards, nelle uscite in compagnia di Laurie Anderson e Arto Lindsay. E poi Elvis Costello, Cibo Matto, Black Keys e mille altri: il talento multiforme di Ribot, musicista classico prestato all’avant, l’hanno inseguito e lo cercano ancora in tanti, tantissimi. A un certo punto, nemmeno due mesi fa, il Nostro è tornato e l’ha fatto in grandissimo stile, con il suo trio Ceramic Dog – Shahzad Ismaily (basso, moog, voci) e Ches Smith (batteria, elettronica, voci) – e YRU Still Here?, undici tracce e cinquantatre minuti d’incendiario punk-jazz d’impatto fugaziano che fa muovere testa, piedi e culo in ordine variabile.
Non lo so se anche a voi capiti oppure sono solo io che mi avvicino ad ampie falcate ai 35, ma ultimamente ho questo problema: spesso, anche di fronte a dischi belli o molto belli, oggi mi trovo a pensare che manchi qualcosa – quando parlano di sesso è come se il sesso non ci fosse, quando parlano di sentimenti è come se raccontassero di qualcos’altro, quando protestano è come se la politica c’entrasse solo di lato e non fosse invece la vita di tutti i giorni; il sangue, i nervi, la carne, ai nostri giorni, sembrano solo rappresentazioni, ricordi. Ecco, questo rischio in YRU Still Here? non si corre mai: con Ribot le cose sono vere cose, la politica è vera politica, la rabbia è vera rabbia, e che tocchi a un sessantaquattrenne stringere il pugno più forte di gente che ha la metà o un terzo dei suoi anni è una cosa che fa riflettere.
Guardate l’onda nera che vi sta intorno, dappertutto, e trovatemi un argine migliore di Muslim Jewish Resistance, che chiama per nome e afferra alla gola i responsabili del culto della morte di questi anni per sputargli in faccia “mai più neo-nazisti, fascismo e KKK / mai più Jeff Sessions e Scott Pruitt / mai più Donald Trump e Steve Bannon”. Un inno spiritato e sovversivo, il più bello dell’anno, ma non aspettatevi un comizio da vecchio barbogio: tra chitarre malmenate e ululati sax d’impronta free, c’è semplicemente il fastidio insopprimibile di chi, pur nato dalla parte fortunata del mondo, non ha mai smesso di odiare soprusi e disumanità e di credere che la parola “comunità” abbia un senso. Qui come del resto nell’altro, sferragliante highlight Fuck La Migra – sì, Ribot l’ha capito bene che non c’è più tempo per metafore o sottigliezze, ma bisogna protestare caotici e vitali (questa l’ha detta un amico, d’accordo).
D’altra parte questo è un album che si apre con una vera e propria dichiarazione d’intenti: “I got the right to be unhappy / I got the right to say fuck you“, strilla sgraziata Personal Nancy – che parla di una relazione passata, eppure in YRU Still Here? ogni sentimento sa farsi politica. Lo stesso vale per i suoni, che si muovono in uno spettro che va dalla provocazione sarcastica allo scontro armato: Agnes, ad esempio, si trasforma lungo la via in un disturbante drone mononota; Pennsylvania 6 6666, invece, è quasi una filastrocca che solo nel finale alza i bpm in un concitato canto brasileiro, ma intanto nel testo – autobiografico, a tema white suprematism e vergato da Ismaily – ti sbatte in faccia prima questo:
Pennsylvania, want to live there
place where everybody is white
love your neighbor like your brother
every day and every night
e poi questo:
at first they hung me out the window
threw my cake out in the rain
called me ugly and disgusting
because I was not Christian
Un album fenomenale, che lascia ampio spazio a divagazioni strumentali – la funkadelia di Oral Sidney With a U, il puro alt-rock da Dischord di Shut That Kid Up (oltre la barriera degli otto minuti), l’Oriente con sitar d’ordinanza di Orthodoxy – mentre la title-track ammalia di bossanova semiacustica e minacciata solo in lontananza da feedback chitarristici, un temporale lontano che sai già inevitabile. Un album fenomenale, dicevamo, tenuto insieme da una rabbia gioiosa e contagiosa, che – come ha detto bene PopMatters – non cerca mai la strada facile, nemmeno nei momenti più leggeri: una di quelle qualità che trasformano una semplice raccolta di canzoni in un classico necessario per ribaltare la visione a tunnel di questi anni cupi.
Titolo | YRU Still Here?
Artista | Ceramic Dog
Durata | 53′
Etichetta | Noise Inc.