Balkan road trip/4 – Mostar e i paesaggi della Bosnia
1 – Balkan road trip/1 – I mille strati di Belgrado
2 – Balkan road trip/2 – La follia del Guca Trumpet Festival
3 – Balkan road trip/3 – Scream for me Sarajevo!
Lasciando Sarajevo resta una sensazione di incompiuto dinamismo. Non so cosa faccia quella città a chi la incontra, ma imboccando la superstrada che punta alla campagna ti sembra di abbandonare un’isola. Improvvisamente il caos brulicante di storia e persone si trasforma in un percorso a quattro corsie che attraversa un paesaggio completamente deserto su entrambi i lati. La direzione imboccata è quella di Mostar. Sud – Ovest.
Ma bastano circa 80km per capire che la Bosnia non è la malinconia dei dintorni di Sarajevo. Man mano che procediamo, infatti, il paesaggio diventa sempre più verde interrotto da punte rocciose. E’ la valle del fiume Neretva che scorre quasi 100 metri più giù, in fondo alla scarpata. E’ un percorso scavato, ora accidentato ora frastagliato e interrotto da piccoli insediamenti. Una pecara (panetteria), una moschea e qualche casa. Difficile superare i 70km orari quando si interrompe la superstrada e si imbocca questa sorta di provinciale. Curve, tornanti, e orizzonte che cambia ogni pochi chilometri.
Il ritmo della Neretva è lo stesso della strada che lo costeggia. Curve strettissime, dossi, salite e discese accanto ai percorsi torrentizi. Calma, dritta e dolce, quando il fiume rallenta e si allarga in una grande bacino (probabilmente) artificiale. Viene spontaneo fermarsi più volte tra Konjic e Glogosnica e dopo chilometri e chilometri di niente lasciarsi scivolare dentro la corrente del fiume. L’acqua gelida è compensata dalle temperature semidesertiche che si raggiungono all’interno della Bosnia l’estate e che compensano i -20 di gennaio e febbraio.
Si arriva a Mostar così, d’estate. Tra un bagno e l’altro ad ogni sosta, improvvisamente la piccola cittadina si staglia all’orizzonte. La riconosci perché è una piccola distesa punteggiata da un’infinità di minareti. Credo di averne contati almeno 20 per una città di poco più di 100 mila abitanti che sembra, in realtà, un villaggio troppo cresciuto. E come un villaggio, infatti, si dispone. Tutto si irradia a partire dal famosissimo (e troppo turistico) ponte sulla Neretva. Lo Stari Most, Ponte Vecchio.
Voluto da Solimano il Magnifico, è composto da un solo arco sospeso a decine di metri sopra il fiume. Il suo color sabbia è dovuto alla pietra calcarea di cui è composto ma, purtroppo, non è la stessa delle origini. Il ponte, infatti, oggi non è altro che una ricostruzione assai fedele. Ha collegato le due rive per centinaia di anni, dal 1557, ma nel 1993 è stato abbattuto. E’ bastato un singolo colpo lanciato da chissà chi per farlo crollare rovinosamente.
Mentre cerco di farmi spazio evitando di innervosirmi troppo tra orde di cinesi che scattano foto con l’iPad e tedeschi accaldati, chiudo gli occhi e provo a immaginarlo appena dopo il crollo. Un ponte militare di acciaio ha collegato per anni le due torri di guardia alle estremità. Improvvisamente però mi strappa da questi pensieri il vociare della folla che cresce. C’è qualcuno in costume che si sporge dal bordo del ponte. Qualcun altro gira tra la folla con un cappello pieno di banconote: non appena sarà raggiunta una somma che li soddisfa, l’uomo si butterà. E’ un becero riturale che si ripete almeno un paio di volte al giorno l’estate ma che rimanda a qualcosa di più grande e sentito, alla tradizione degli abitanti della città che prima che la guerra gli portasse via il ponte hanno sempre vissuto abbracciati al loro fiume.
La verità è che il modo migliore per osservare quel ponte è da sotto o dalle casette spioventi lungo la sponda. Non fatevi remore a bussare a qualcuna delle porte. L’accoglienza è sempre balcanica. Bussate agli edifici che non sono stati occupati da ristoranti per turisti e offrono ancora l’autentico sguardo della città ottomana che fu. E uscendo ci si può immergere nelle vie che sono dei piccoli suk. Ricordano indubbiamente la città vecchia di Sarajevo, Bascarsija. Lavorazioni in bronzo e ceramica, tappeti, sciarpe, e miscellanee di ciarpame vario. Camminando lungo la Kujundziluk, la via più affascinante del centro storico, antica via degli orefici, si arriva alla moschea di Koski Mehmed-Pasha. Ben visibile già dallo Stari Most, è sovrastata da un altissimo minareto che risale al 1600. Il custode è un simpatico vecchietto che parla qualche parola di italiano ma non abbastanza da saperti dire perché. Tra vocaboli qua e là e un po’ di gesti ti invita a salire fino in cima al claustrofobia minareto. E’ un fiume in piena di una lingua indistinguibile mentre mi tolgo le scarpe per entrare nella moschea. Colgo la sua ammirazione per il luogo che sto per visitare e anche una leggera sfumatura di gratitudine: delle migliaia di persone che visitano il ponte, solo pochissime si spingono fino a questa soglia. Ed è camminando fino qui che si riscoprono le cicatrici della città.
Se i duecento metri quadrati dell’area intorno al ponte sono stati tutti risistemati, infatti, tutto il resto è ancora fermo agli anni 90. Come Sarajevo ma molto, molto, molto di più. Un lato del muro della casa dove alloggio è ancora completamente crivellato. Il cancello di ferro battuto è una lastra piena di buchi. Non vergognatevi a indugiarvi con la mano. Loro lo fanno in continuazione, almeno con lo sguardo. Li riconosci così i residenti del posto.
E’ curiosando tra questi sguardi che finisce questo lungo viaggio attraverso i Balcani. Un’ultima occhiata alle acque verdi e trasparenti della Neretva e si va. Mentre l’auto si allontana da Mostar e punta verso nord ritorna lo stesso paesaggio dell’andata.
Finisce qui questo percorso lungo le storie e i luoghi di quegli “altri” che hanno riempito l’immaginario delle cronache della nostra infanzia.
L’orrore ha lasciato in eredità una terra che sta provando a rinascere tra vecchi rancori e passati che ritornano. Una terra che merita davvero di essere visitata.
E’ un viaggio che invita a leggere, ad imparare a divertirsi, ad ascoltare e a riflettere.
Quella nei Balcani non è solo una vacanza ma un’esperienza culturale, sociologica, storica e profondamente personale.
…fine.
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