Balkan road trip/2 – La follia del Guca Trumpet Festival
1 – Balkan road trip/1 – I mille strati di Belgrado
2 – A Guca, per 5 giorni all’anno, quando arrivi, suonano le trombe. Per tutto il resto del tempo la vita scorre silente, in un’alternanza quotidiana dettata dalle stagioni e dalle esigenze locali. Proprio come in quell’infinito territorio che attraversiamo arrivando da Belgrado. C’è una strada a due corsie. Una per ogni senso di marcia. La direzione è ‘sud’, possibilmente con una buona dose di pazienza e di desiderio di scoprire, limitandosi a guardare fuori.
Il navigatore è più confuso di te che guardi la cartina e cerchi di capire quale sarà il meno peggio tra quelle strade tortuose che tagliano la Serbia restituendo l’immagine di uno specchio rotto. E come dal vetro infranto cambiano le prospettive, così a ogni curva, a ogni (inter)sezione di questa griglia irregolare, il paesaggio sorprende e rapisce.
Uscendo da Belgrado, abbandonati quei palazzoni di eredità sovietica, l’orizzonte si fa piatto e verde. Sopra di noi il cielo è grigio. Basso. Soffia un vento che non appartiene alla stagione. L’agosto della città sembra lontanissimo mentre la temperatura cala vertiginosamente di ora in ora. I 30 gradi di Belgrado sono diventati 11. Piove e – senza chiudere gli occhi – riesci a immaginare la vita come scorre per davvero in questi luoghi, quando anche i pochi turisti che passano se ne sono andati.
A lato della strada sporadiche case accompagnano l’inizio delle prime colline. Si vive di sussistenze e quiete ordinarietà. Ogni giardino contiene qualche bestia che rumina annoiata osservando il passare delle auto. Due arnie. Un banchetto per vendere il miele, ma oggi non conviene: nessuno abbandonerebbe l’abitacolo per farsi sorprendere dall’autunno improvviso in calzoni e ciabatte.
Per dei tratti la strada finisce e l’avventura si trasforma in temerarietà. Lo sbarco di ingenti fondi (pare) principalmente stranieri ha spinto a rimettere a nuovo le arterie principali. Con calma. Così centinaia di chilometri di percorsi in mono-corsia sono sterrati e schiavi del passaggio dei mezzi. La macchina trema sulla ghiaia, scivola su qualche salita. Rallenta. Tanto c’è tempo, qui. E c’è tutto quel verde fuori che resiste alla pioggia.
A Guca arriviamo la sera e sembra di avere – improvvisamente – cambiato dimensione. Svoltata l’ultima curva di questa sorta di niente incontaminato e bellissimo, una coda di macchine si snoda lungo il sentiero fino a dei parcheggiatori che, sventolando una mazzetta di dinari serbi, raccolgono la tassa per l’ingresso in auto. Siamo “esentati” da questo passaggio perché abbiamo contattato gli organizzatori per provare a vivere l’altra esperienza del festival. Quella “completa”: essere ospiti di una famiglia del paesello. Vivere con loro. Vivere come loro. Viverlo come loro.
La signora che ci accoglie parla solo la lingua locale. E l’esperienza della barriera si trasforma in uno scambio per tentativi. I gesti, i suoni, le espressioni, gli umori, gli odori. Ci sarà tempo domani, per capirsi. Prima c’è la festa. Il GUCA TRUMPET FESTIVAL è comunemente ritenuto nei Balcani la Woodstock d’Europa. Dal 1960 circa si ripete nella prima decade di Agosto. Per 5 – 7 giorni le maggiori gipsy band dei Balcani si riuniscono qui, nel mezzo della Morava. Bastano 24 ore per tuffarsi in un vortice fatto di sorsi di rakija, la tipica grappa di prugne, odori e sapori di carne alla brace, fiumi di birra, che non si chiama “pivo” come in tutto il paese, ma direttamente “Jelen”, come il brand principale che sponsorizza questa foll(i)a.
Protagonisti di tutto questo sono i musicisti. Vengono dalla strada e nella strada restano e si esibiscono. Il ritmo te lo inculcano trasformando i sentieri di questa sperduta cittadina in una danza e una sfida. Non credo di aver mai mosso un dito “alla balcanica” in vita mia. Qui, invece, è stato tutto incredibilmente spontaneo. Mentre mangi le band si sfidano intorno a te e non c’è nessuna regola di decibel. Parlarsi è impossibile ma, a volte, lo è anche ascoltarli. Bisogna solo lasciarsi trascinare da questa pazzia. La band a destra cerca di suonare più forte di quella a sinistra. Due melodie rigorosamente diverse, follemente ritmate. E l’insieme diventa una cacofonica danza. Birra, cevapcici e passi sconclusionati.
Più si va verso la notte più l’apparente regolarità viene abbandonata e le strade diventano un fiume di persone impazzite. Chi balla, chi beve, chi corre, chi sale sulla statua del trombettiere, chi rischia di cadere, chi parla francese, inglese, spagnolo. Stanotte sembra che tutta l’Europa sia qui.
Mi guardo indietro risalendo la collina che porta a casa. E’ notte fonda. Da giù salgono ancora i suoni della festa. Il freddo taglia la faccia ma non lo senti più. Hai come l’impressione che tutto questo potrebbe continuare all’infinito.
Quando, la mattina dopo, il sole entra presto dalla finestra senza imposte, timidamente scendi le scale. La perturbazione se ne è andata. Il cielo è terso e, riscaldandoti al sole, rimetti il corpo in pace.
E’ così, a un tavolo per la colazione condiviso con inquilini tedeschi, francesi e italiani che la nostra ospite serba ci fa capire come il modo migliore per comunicare con chi non parla altre lingue che la propria sono i sapori:
“Assaggiate, raccolgo tutto quello che c’è sul tavolo nell’orto, e i lamponi sui monti qui intorno. Lo sciroppo lo faccio con quelli” dice con gli occhi e con le mani.
Poi ti porge il tutto, fiera.
Dobbiamo andare. Tra qualche ora saremo in Bosnia.
Dvala, grazie, e un abbraccio muto ma intenso.
2 – Continua…
Balkan road trip/3 – Scream for me Sarajevo
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