Balkan road trip/1 – I mille strati di Belgrado

Balkan road trip/1 – I mille strati di Belgrado

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belgrado centro
La via bohémien di Belgrado.

Questa è la prima tappa di un viaggio che almeno una volta nella vita va fatto. Il requisito fondamentale è la voglia di andare per davvero. Di scoprire i luoghi e le storie di quegli “altri” che hanno riempito l’immaginario della nostra infanzia. Di guardare quei paesaggi di cui parlavano i grandi, dove puntavano gli aerei da guerra che attraversano i pomeriggi degli anni 90. Tuoni nell’innocenza di bambini. Che nonna mi diceva: vedi, vanno verso la Jugoslavia. Guardali, hanno le bombe. E ogni volta che passavano chiudevi gli occhi e le orecchie, che ti sembrava un gioco brutto, che faceva paura, ma sempre un gioco. Ed è con questi pensieri che guardo fuori dal finestrino mentre il primo confine si avvicina. Lisert. Slovenia. IMG_0687

Nell’afa d’agosto appare come una meteora. Piccola, breve. La macchina la attraversa in due ore. Una terra che riverbera di verde e luce che taglia gli alberi. Se ne va così, nella tarda mattina, mentre l’ingiallire dei prati e lo sparire delle colline annuncia l’arrivo della Croazia. Quella cruda, aspra, arida. Gelida l’inverno, desertica l’estate. Ecco, lontana dalle coste la Croazia non è altro che un bassopiano infinito. Chilometri e chilometri di niente. Uno scenario post apocalittico aggravato dall’assenza di pioggia. Una strada a due corsie si snoda per questa distesa mentre la radio perde ogni contatto con l’Occidente e si riempie di quei suoni ora liquidi ora duri tipici delle lingue balcaniche. A Belgrado, dall’Italia, si arriva solo per di qui. Ed è lì che si va. Verso la Serbia, verso il Paese senza mezze misure, e che dell’assenza della misura stessa ha fatto l’essenza della sua storia. Storia di terre prese, strappate, perse, riprese. Come le vite. 

A Belgrado si entra da una tangenziale circondata da schiere infinite di palazzoni sovietici. Il grigio delle pareti è costellato di condizionatori, così tanti che ti sembra quasi di sentirli ronzare nella calura dei Balcani senz’aria. E lì in mezzo, come innesti di graminacee, i grattacieli della modernità. Sembra che qualcuno si sia divertito a scambiare i pezzi di due puzzle su Berlino ovest ed est. Perché Belgrado non è “graziosa”, non è “delicata” e nemmeno “elegante”. Belgrado – se la dovessi giudicare di corsa – è una stratificazione. Attraversare le sue vie è come effettuare un carotaggio. A ogni livello corrisponde il passaggio di un’idea o di un uomo diversi, senza che nessuno di questi si sia preso la briga di sbarazzarsi di quello che c’era prima. Una forma di inconsapevole rispetto che restituisce un ritratto disordinato e ingannevole, ma non per questo meno affascinante. 

 Kalemegdan belgrado
La città alta. Le fortificazioni di Kalemegdan.

Belgrado è la città dove la Sava confluisce nel Danubio. Letti di fiumi maestosi e immensi si incontrano al centro di parchi verdi e silenziosi, appena sotto un agglomerato urbano ora modernissimo ora sfrenatamente balcanico, mai quieto. Ma è dalla città alta che si comincia. Quel gioiello chiamato Kalemegdan che è resistito al susseguirsi degli odii più atroci. Kalemegdan è fortezza ed è origine. Il marmo bianco con cui è stata costruita dà il nome a Beograd, Belgrado, appunto: “città bianca”. Ma è ocra il colore che le pietre oggi restituiscono allo sguardo, al netto delle battaglie che ha vissuto e delle 40 ricostruzioni che ha visto. Camminando sulle sue mura a strapiombo si intravede, più sotto, l’incontro dei fiumi, che è piuttosto un abbraccio. Impercettibile. La fortezza, oggi, è uno dei cuori nevralgici della vita all’aperto. Tra le pareti fortificate sono stati costruiti campi da tennis, da basket e da calcio. Ci sono bar più o meno panoramici, panchine e prati. Sembra quasi impossibile che su queste pietre siano cadute piogge di bombe per 78 giorni solo nel 1999. Nascoste dietro i muri, giù da scalette e sentierini, ci sono chiesette ortodosse fini e raccolte. Il rumore resta fuori mentre dentro si ripete il rituale: l’inchino all’icona, il bacio, qualche passo, un nuovo inchino, un nuovo bacio. La preghiera è nella mente, o su un foglietto adagiato sul volto del Cristo o del santo. In una mano una manciata di piccole candele sottili che, tra poco, si uniranno alle altre che si consumano in una sorta di lucernario all’ingresso. Scemeranno lente lasciando piccole tracce di fumo nero sul soffitto decorato. Sarei rimasto ore a contemplare questo ritmo succinto. Preciso. Sobriamente solenne. 

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Jarem Na Vodi. Uno spazio speciale che galleggia sulla Sava.

Appena fuori il vortice di Belgrado non si è mai fermato. Scendendo lungo un sentiero dimentico di ogni barriera urbana, si è subito sul lungo Sava. E anche qui è una sorpresa, al punto tale che inizio a pensare che non ci sia niente di casuale nel continuo svelarsi delle mille dimensioni diverse di questa città. Una fila di barconi ormeggiati proprio lì dove si uniscono i due fiumi. Sembrano tutti uguali, da fuori. Ristoranti sull’acqua, locali, chissà. C’è una ragazza al telefono fuori da uno di questi. C’è scritto ‘privato’. Si chiama “Jarem Na Vodi”. Entrate, è bello, dice in inglese. Scusa, mamma, ma stavolta ho fatto davvero bene ad ascoltare uno sconosciuto. Dentro c’è l’accoglienza balcanica contaminata dall’Occidente degli anni sessanta. Sembra quasi una comune, questa barca, con le sedie sdraio sopra il tetto. Gente elegante, gente in costume, pescatori di frodo che ormeggiano al ponte e portano strani mostri di fiume ancora dimenantisi verso le porte della cucina. C’è una birra e c’è il maestro di cocktail. “Fai tu”. Ed è un tripudio di sapori agrumati ma non acri. C’è lo zucchero e un lontano retrogusto di zenzero. Scende insieme alla notte che cambia in continuazione i colori del fiume. Al tramonto subentrano le stelle e salgono i desideri nel cielo di Agosto. C’è un ragazzo che serve ai tavoli. E’ venuto qui dal Kenya per studiare e ha trovato una famiglia su questa barca traboccante dell’umanità più varia. 

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Jarem Na Vodi. Il tramonto sulla Sava.

Rientrando, un ultimo cocktail sotto casa, vicino a Strahinjica Bana. Centro. Il posto si chiama Blaznavac. Anche qui si alternano maestri del mestiere a arredi stravaganti.

La testa non pesa quando il giorno dopo cammini per Stari Grad. E’ a sud – e a due passi – da Kalemegdan. Ed è un altro ennesimo amalgama di stili architettonici diversi. Ora ottomano ora asburgico, accompagna fino a Dorcol, dove si trova l’unica (o meglio, l’ultima) moschea di Belgrado. All’ingresso non c’è nessuno. A piedi nudi guardo i tappeti e la dichiarazione di fede verso la Mecca. Sono passati solo 10 anni dagli ultimi tumulti. Nei Balcani sotto il segno di una croce o di un profeta si è scritta e si continua a scrivere la storia. Risalendo verso il centro, però, tornano il caos e la frenesia di questa città. Tutto culmina in piazza Terazije, sormontata dagli eccessi del palazzo dell’Hotel Moskva. Art Nouveau con un secolo di storia.

Ogni pausa, a Belgrado, e per tutti i Balcani, sarà scandita dall’odore della carne che sfrigola sulla brace. Le salsicce aromatizzate sono un must: le chiamano cevapcici. Jelen è la birra che trovi un po’ dappertutto. Ad accompagnare la carne una panna acida o delle verdure con l’immancabile cipolla cruda. Ti adegui. Così fan tutti, di questo sanno tutti. Il meglio è farlo nella Skadarlija Ulica, la via bohémien di Belgrado. Un misto di Parigi e Praga in salsa balcanica.

L’estate, la fatica dello scoprire si scioglie all’Ade Cingalije. Lontani dal mare e dai laghi, i belgradesi si sono creati il loro. Scavando un lago artificiale dalle acque della Sava, a due passi dal centro della città, c’è la spiaggia con i barettini, le birre e i venditori di pop corn che sostituiscono ad ogni angolo il “nostro” cocco. Non credo ci sia niente di meglio, dopo aver visto dove vivono, di confondersi tra le abitudini di questi serbi un po’ strani che vogliono liberarsi del loro passato unitario e si confondono nelle più quotidiane abitudini occidentali, ma accorrono a frotte al mausoleo, pardon, museo di Tito fuori città. Un tempio dedicato all’ultimo dei balcani.

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A oggi non ho ancora capito se Belgrado mi ha concesso di scoprirla fino in fondo. Ma mi sono convinto che sia un’impresa quasi del tutto impossibile. Perché – più di ogni altra città – Belgrado è un amalgama di eterogeneità. Belgrado è caleidoscopica. Da dove la guardi, cambi la prospettiva e l’interpretazione dell’immagine che hai di ritorno.

Edifici ottomani, asburgici, poi sovietici, poi moderni. Il verde della Sava e del Danubio. Tutto scorre negli occhi e si confonde mentre la macchina riparte verso sud. Verso il cuore della Serbia. Verso Guca. 

1-Continua…

Balkan road trip/2 – La follia del Guca Trumpet festival

Balkan road trip/3 – Scream for me Sarajevo

Balkan road trip/4 – Mostar e i paesaggi della Bosnia

[Un grazie speciale per la compagnia e la condivisione di questo viaggio a Yara Romanova]

Ada Cingalije belgrado sava fiume bagno
Ada Cingalije. Il mare dei Belgradesi. Una birra e i piedi nell’acqua per attendere la fine della giornata.
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