Le avventure grafiche di oggi. L’esperienza oltre il videogioco
Si sa, ormai i videogiochi sono stati in qualche modo sdoganati da un punto di vista sociale. Da adorabili giochini per bambini sono diventati fogna per nerd brufolosi prima e vezzo di molti al giorno d’oggi. Roba che non ci si deve manco più vergognare a dire che ci passiamo ancora del tempo libero.
In un certo senso potremmo dire che i videogiochi, socialmente parlando, abbiano fatto un percorso simile a quello delle serie TV, che hanno guadagnato progressivamente sempre più spessore e, di conseguenza, sempre più rispetto e seguito, non venendo più considerate sorelle minori e bruttarelle del media cinematografico.
I videogiochi rimangono in ogni caso un fenomeno a sé stante proprio per la tipologia di mezzo di interazione e “comunicazione”, ma, nonostante questo, hanno fatto passi avanti in tutti i sensi: grafico e di giocabilità, appare scontato, ma anche di spessore narrativo. E, proprio per quanto riguarda lo spessore narrativo, il tentativo di avvicinarsi alla settima arte è diventato sempre più preponderante, affrontando tematiche via via più complesse e “adulte”, sia in generi più consoni, come i giochi di ruolo (Aeris, anyone?) che in picchiaduro o simulatori sportivi.
Un genere di nicchia, che ha avuto il suo periodo di massimo splendore negli anni ’90 anche grazie alla narrazione, è stato quello delle avventure grafiche o “punta e clicca”: le persone della mia generazione che maneggiavano i primi PC difficilmente avranno dimenticato capolavori della LucasArts e Sierra come la serie di Monkey Island, Grim Fandango, Sam & Max, Beneath a steel sky, The Dig, per non dimenticare titoli come Broken sword o, più recenti, The longest journey e Syberia.
Insomma, potrei andare avanti per ore.
E questo la dice lunga su quanto tempo abbia dedicato tra enigmi, rompicapo e, in particolare, storie che, ora incredibilmente divertenti, ora toccanti o angoscianti, non potevano non rimanere impresse nella mia memoria.
Il genere, tuttavia, non ha retto bene la prova del tempo ed è finito, fatta eccezione per i fan più hardcore, nel dimenticatoio, almeno fino agli ultimi anni. Da qualche tempo, infatti, ha recuperato il suo fascino e ripreso lustro, andando incontro anche ad una evoluzione, presentando, oltre alle avventure grafiche, giochi definiti “walking simulator”.
In questo genere di titolo, il giocatore è completamente immerso in un mondo tridimensionale spesso liberamente esplorabile visto in prima persona, in cui l’interazione col mondo circostante è relativamente scarsa è interamente finalizzata alla narrazione. Proprio per questo motivo, prodotti del genere non incontrano consensi unanimi, in quanto, sia amanti che detrattori, concordano nel definirli “esperienze” più che comuni videogiochi, data la tale peculiarità della componente prettamente ludica. Esperienze fondamentalmente narrative, ma anche esplorative e grafiche, perché è chiaro che senza lo sviluppo tecnologico e le potenzialità odierne, prodotti simili non avrebbero mai potuto vedere la luce.
Tutto ciò è un problema? Per i detrattori c’è noia e non si potrebbe neanche parlare di videogiochi, figurarsi.
In ogni caso, a voi la scelta, io vi do il mio punto di vista di ammiratore del genere. E, per farlo, non posso che parlare di tre titoli che hanno fatto scattare la scintilla (tra questi manca ancora Dear Esther, uno dei capostipiti e più apprezzati, che spero di recuperare quanto prima. N.d.A.).
In principio fu Firewatch, prodotto da Campo Santo: impersonate Henry, diventato guardaboschi in Wyoming per “scappare” dalla sua quotidianità e dalla malattia mentale della moglie. Il suo compito sarebbe solo quello di individuare al più presto incendi per segnalarli tempestivamente, ma ben presto si ritrova invischiato nella sparizione di due ragazzine, diventando inseguito\inseguitore di qualcuno che spia lui e la sua collega Delilah, unica “voce amica” attraverso l’inseparabile walkie-talkie. Le atmosfere sono marcatamente scandite dalle tavole di colore in un enorme bosco in cel-shading, stile che esaspera appunto i colori, dando più la sensazione di trovarsi di fronte ad un cartone animato che ad un videogioco. Il risultato è splendido da vedere e non è raro ritrovarsi a girovagare per i boschi, armati di sola bussola e walkie-talkie, ammirando panorami e tramonti tra un rompicapo e l’altro, fino a trovare la quadra della storia.
Cambiamo ambientazione e passiamo ad Abzu.
I ragazzi di Giant Squid Studio ci portano in fondo all’oceano e la situazione si fa ancora più straniante: vi ritrovate nei panni di un sub senza nome, senza storia e, giustamente essendo in fondo al mare, senza parole. Iniziate a girovagare i fondali, seguendo uno squalo bianco in veste di cicerone, scoprendo antiche rovine di una civiltà con un evidente culto per il mare (Abzu è il nome della divinità degli oceani e delle acque primordiali nella mitologia sumero-accadica) e riportando alla vita flora e fauna marini, deturpati da inquietanti piramidi robotiche.
Definire questa esperienza “immersiva”, volendo fare facile ironia, è dir poco: il fascino delle atmosfere marine ricreate è magnetico e totalizzante, da lasciare a bocca aperta. Anche qui il cel-shading dà una mano a raffigurare gli abitanti dell’oceano e diventa protagonista, dato che, in questo caso, l’aspetto narrativo è davvero sussurrato, nonostante un commovente e apprezzabile messaggio ambientalista di fondo.
Arriviamo a fine corsa e troviamo una delle vie di mezzo tra videogioco e cinema più rappresentative che mi sia mai trovato davanti, ovvero The vanishing of Ethan Carter.
Qui il registro è completamente diverso, la grafica è più realistica e l’atmosfera nettamente più plumbea, per una trama dalle tinte surreali e horror. Impersonate un investigatore di nome Paul Prospero, alla ricerca un in ragazzino di 12 anni di nome Ethan Carter, disperso nei boschi di Red Creek Valley. La vicenda acquista subito caratteri inquietanti e paranormali, perché non c’è davvero anima viva in giro e anche la famiglia del ragazzino sembra sparita in circostanze misteriose. E macabre. Tocca investigare e, diversamente da quanto succedeva nei giochi citati, interagire maggiormente (ma non troppo) con ciò che vi circonda. Qui girare nei boschi non darà estasi come in Firewatch, perché il cielo grigio è pesante, gli alberi sono lugubri, gli strani rumori e le visioni rivelatrici circa il destino della famiglia di Ethan vi faranno sentire spaventati e soli. Ma non abbastanza soli. E non faranno che aumentare l’angoscia e l’inquietudine fino all’amarissimo finale.
Cosa pensate?
È un articolo di videogiochi e si parla poco di gameplay, comandi, longevità e simili?
Sì, solo storia, ambientazione e grafica, poco altro. Forse il termine “esperienza” è effettivamente più corretto e crea delle aspettative più corrette in chi legge.
Per quanto si tratti di discendenti delle avventure grafiche “punta e clicca”, questi giochi se ne discostano, prendendo una strada tanto interessante, quanto di nicchia, che non so né quanto sarà percorribile né dove possa effettivamente portare in termini di ulteriore evoluzione.
Questo anche perché un aspetto peculiare comune in questi giochi è l’alienazione: il giocatore è da solo ad interagire con l’ambiente circostante, al più è affiancato da un deuteragonista, spesso invisibile o che comunica con noi tramite telefoni o lettere (vedi Delilah in Firewatch). È possibile che l’aspetto di interazione umana oltre che ambientale possa essere maggiormente sviluppato, anche se potrebbe forse alterare l’essenza di queste avventure.
In ogni caso, al di là delle speculazioni evolutive e del voler dare una definizione a questi prodotti, i titoli citati possono immergere e colpire in modo unico. E non è cosa da poco.
E se sono riusciti a destare la vostra curiosità, potreste scoprire un nuovo e particolare modo di vivere una storia.