Per aspera ad… Aspromonte | Calopresti racconta Africo
Sembra trascorso un secolo e invece non sono nemmeno due anni. Era giovedì 21 novembre 2019 quando, al Cinematografo comunale Sant’Angelo di Perugia, veniva proiettato il film Aspromonte – La Terra degli Ultimi.
“Degli ultimi sognatori”, dichiara il regista Mimmo Calopresti, il quale – radunando un cast di calabresi doc quali Francesco Colella (Peppe), Marcello Fonte (nel ruolo di Ciccio detto ‘u poeta dopo il David di Donatello per il ca-po-la-vo-ro Dogman), la squisita Valeria Bruni Tedeschi (David di Donatello, invece, per La Pazza Gioia di Virzì che ho amato spudoratamente) e un magistrale Sergio Rubini nelle vesti di don Totò – ha completamente ribaltato le mie aspettative.
Confesso infatti che, da calabrese trapiantata a Perugia, credevo di imbattermi in un’ennesima delusione di storie di morti ammazzati e malavita (binomio troppo spesso ingiustamente affibbiato alla mia terra come luogo comune), anche per la presenza dell’attore Marco Leonardi di Anime Nere. E invece, con mio piacevole stupore, la visione di questo film mi ha permesso di compiere un viaggio – un nòstos, per dirla con Omero.
Aspromonte – La Terra degli Ultimi è stato in grado di trasmettermi al meglio quel senso di circolarità che è proprio del viaggio dell’esistenza, il cui fine ultimo è arrivare a se stessi. Come Ulisse. Come me. Da nòstos, quindi: nostalgia, parola simbolica bivalente in quanto desiderio, tensione di conoscenza e di ricerca, ma al contempo distacco, esilio, perdita, allontanamento.
È proprio vero che “per essere capaci di vedere cosa siamo, dobbiamo allontanarci e poi guardarci da lontano”: è quello che è successo a me grazie a questo – azzarderei- docu-film. Documentario perché, di finzione, non c’è traccia. Né necessità.
La natura incontaminata e selvaggia del paese dell’entroterra calabrese offre spontaneamente una scenografia stupenda e terribile che è propria di Africo Vecchio, un paese ormai abbandonato nel reggino, la cui fondazione antichissima e di origine greca – come anticipa l’etimologia stessa del nome Africo, da “Aprikos”, ossia esposto al sole – risale al IX secolo a.C., così come antico e agreste era lo stile di vita che vi si conduceva fino al 1953. La natura maligna ha inglobato, nel suo ventre, ciò che rimane di Africo regalando al visitatore/spettatore uno scenario di desolazione e dolore, fatica e violenza, come il carattere della sua gente, gli africoti, pastori e contadini costretti da un’importazione forzata al commercio e all’emigrazione.
Per scelta e non per obbligo, invece, giunge dal nord la giovane maestra (Valeria Bruni Tedeschi), come un’aliena in Aspromonte, ad insegnare ai bambini che l’istruzione e la cultura sono le uniche vie possibili di libertà, realizzazione e riscatto. Ma non nel 1951. Non ad Africo. A mancare, qui, non sono soltanto i libri, ma anche la possibilità che una donna non muoia di parto per la mancanza di una strada che consenta al medico di arrivare in tempo.
Ad Africo manca tutto, anche l’elettricità, eppure il paesello è vivo e vive di luce propria, illuminato dal fuoco di torce che scolpiscono i personaggi alla maniera di Caravaggio (precursore di chiaro-scuri e abili giochi di luce), animato da scene di vita di fango, miseria e soprusi dei signorotti locali sulla povera gente, inebriato dall’odore di fieno, guano, patate e concime che puoi addirittura percepire. Di finto, qui, non c’è nulla. Neppure i personaggi. Neppure i loro soprannomi.
In ogni famiglia calabrese che si rispetti, infatti, esiste lo zì Cicciu, ‘u compara Peppe, ‘u zì Totò e l’immancabile donna-nonna Maria (la mia famiglia ed il mio stesso nome ereditato per rinnovare, ne sono un esempio). Anche la sceneggiatura è reale: in Calabria, infatti, i soldi li metti da parte per costruire la cappella e non la casa di famiglia. “Sto costruendo una casa”, esordisce Ciuccio ‘u poeta; “per viverci?”, domanda la sprovveduta ma per niente prevenuta maestra Giulia; “per morire”, risponde il poeta (da poeta) serafico. E aggiunge: “tutti cercano un posto dove vivere, invece è più importante trovarne uno bello dove morire”.
Ad Africo manca tutto, anche l’acqua. Non è servita da un sistema di conduzione, e tuttavia è molto più salubre e salutare poiché viene portata direttamente dalla fiumara di Amendolara, una delle arterie pulsanti di questo territorio, dal percorso lungo e tortuoso che giunge fino ai piedi del Montalto, cuore dell’Aspromonte. La fiumara ha un aspetto elegante e terrificante, che evoca la sagoma di un gigantesco drago assopito: le sue squame sono rappresentate da ammassi di pietra di differenti tonalità di grigio, mentre l’iridescenza dell’acqua ne costituisce il ventre e la testa – a tre occhi, poco più lontana – è rappresentata dalla “rokka tà traku” (dal grecanico, antica lingua ellenica, appunto roccia dell’occhio).
Qui realtà e mistero, leggenda e mito, si intrecciano con la storia dei popoli fondatori – dai Normanni ai Fenici, dagli Armeni ai Greci – dando vita ad una Identità che trova Dignità nella sua Contaminazione, che è ricchezza. I calabresi sono sì territoriali, orgogliosi e fieri, ma sono anche – e soprattutto – ospitali con lo straniero, lo xènos omerico, il viaggiatore, al quale spetta un ristoro rifocillante, il servizio buono e la tovaglia del corredo per accoglierlo con gratitudine e cortese occhio di riguardo.
Gratitudine è infatti il sentimento che mi accompagna per 87 minuti di film: gratitudine per i doni offerti dalla mia terra e per chi ne è diventato cantore, poeta, regista, scrittore, viaggiatore, incantato dall’ammaliante lirica della natura pervasiva ed intrusiva che ti inghiotte nel suo abbraccio selvatico e salvifico. È questo rapporto simbiotico, intenso e disperato, ad aver stregato la penna di Staiano, Zanotti Bianco e Corrado Alvaro, che nel suo libro Gente in Aspromonte dichiara: “la lontananza è il fascino dell’amore. Amarsi vicini, è difficile”. D’altronde, è risaputo: noi calabresi ci accorgiamo dell’importanza delle nostre “sacre sponde” soltanto quando ne siamo lontani… ma dal monito del mare o delle montagne in cui siamo cresciuti, non si può fuggire.
Nell’etimologia della parola Aspromonte è racchiusa tutta la vera essenza del calabrese. Aspromonte, in italiano, deriva da aspro, rimanda quindi ad un qualcosa di impervio, di duro, a tratti inaccessibile; ma in lingua grecanica aspro vuol dire bianco, luminoso, lucente, luogo che si accende per primo grazie alla lama di luce che, testarda, sorge puntuale ogni giorno ad est. Il calabrese viene dipinto da Calopresti proprio come un Giano bifronte, con un lato oscuro, diffidente, che fa paura, ed un lato luminoso, accogliente, familiare. Aspromonte, nomen omen! Aspromonte, terra di coraggio, avvezza oramai a scrollarsi di dosso i ciottoli e la fanghiglia di un’ennesima violenta alluvione per consegnarci case sventrate di borghi-fantasma come quello di Roghudi (dal greco anche qui, dirupo).
L’intento – riuscitissimo – del regista e dei suoi personaggi è quello di ricordare spaccati di vita quotidiana in cui potevi imbatterti fino agli anni ’50 in questo piccolo fazzoletto di entroterra arroccato sui monti calabresi, imparando il duro mestiere di vivere, sopravvivendo a catastrofi naturali e sociali, animato dal portentoso desiderio di migliorarsi e di non arrendersi, facendo di necessità virtù.
Non esiste una strada? E allora, facimula! “E quantu larga a facimu, Peppe?”: “Tantu u passa nà machina!” (leggi: due metri). Il motto è sempre “mai perdersi d’animo”: la speranza, in Calabria, non muore mai, ed è la speranza ad addolcire il sapore amaro di una lacrima che segna il volto del pubblico mentre abbandona la sala; ed è proprio un messaggio di speranza a sancire la degna conclusione del film, affidato alle parole di un bambino che, insieme alla colonna sonora firmata Nicola Piovani, evoca Nuovo Cinema Paradiso: “allora è bello sognare!” “certo che è bello” – risponde il poeta (che è poeta non a caso) – “attraverso i sogni diventi te stesso. I sogni, ti fanno pensare che sei libero!”
Mentre le luci in sala si riaccendono e io mi avvio verso casa ignara che quello sarebbe stato l’ultimo film che avrei guardato in un cinema, nella mia mente risuonano i liceali versi delle Bucoliche di Virgilio – “nos patriae finis et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus” – e mi accorgo soltanto ora che la mia vita, da dieci anni a questa parte, non è stata altro che un continuo susseguirsi di dolorosissime e strazianti partenze e di felicissimi ed agognati ritorni verso casa.
“… pianse il dio Pan quando ci vide partire… ebbe un fremito d’ira, di sdegno… ora, sotto un cielo turchino, fingiamo di essere felici. Ignari di correnti e di maree” (Ottobre 1951), F. Favasuli
Titolo | Aspromonte – La Terra degli Ultimi
Regista | Mimmo Calopresti
Anno | 2019
Durata | 89′
Maria Cristina Clericò
Grazie a Maria Cristina Clerico per questo articolo sul film di Calopresti. Ha squarciato un velo su qualcosa che gli avvenimenti mi avevano costretto a seppellire. Ero presente al Comunale alla proiezione del film e a distanza di anni rilevo che anche per me la vita “prima” era stata seppellita. Condivido l’analisi puntuale dell’opera che mi è piaciuta moltissimo. Complimenti.