Ammaniti, i palindromi e la fine del mondo

Ammaniti, i palindromi e la fine del mondo

I romanzi di Ammaniti non brillano mai di luce. Non brillano d’affetto, non costruiscono lettori sereni. Sono inframezzati da termini scalcagnati, concetti che stridono, costrutti che decapitano la poesia. Popolati di umani equipaggiati di tanta macchia e tanta paura, prese di coscienza in deficit di benzodiazepine, paesaggi muti.

Anna non sfugge al criterio. Eppure Anna è una gemma.

La vicenda è sbrigativa, il testo cinematografico. Anna, eponima palindroma, ha tredici anni e suppone che da vivere non le resti quasi niente. Un morbo macrofago ha ammazzato tutti gli adulti: solo i bambini si sono salvati dalla “Rossa”, il cui virus giace presente e addormentato fino a quando la pubertà non spalanca animi, ormoni, vari titoli di turbamenti e con essi eritemi maculari, linfoadenopatie, polmoni squassati dalla tosse, deliri e sussulti e la morte.

I giorni dopo la fine del mondo sono un grande asilo sulle rovine di un mattatoio. Piccoli umani sbandati giocano alla sopravvivenza armati di lupara e scoramento, costretti ad un caduco pactum unionis di cui nemmeno s’accorgono: Ammaniti non s’è inventato niente, la società ricostruita da ragazzini che è più feroce di una corte marziale fu già nucleo del Signore delle Mosche, quando Golding evocava senza buonismi il tema del bambino erogatore di violenza. E sarebbe facile convincersi di percepire, fra queste pagine edite Einaudi, lo stesso marciare malinconico del padre senza nome ne “La strada” di McCarthy: eppure, una certa risolutezza, un’assenza di piagnistei, il delinearsi di una natura neutrale, severa ma rigogliosa plasmano un contorno addolcito per questa cronaca dell’apocalisse. Ammaniti prende in prestito ma elabora scientemente, ripassa secondo il proprio metro di sensibilità quelle domande ingombranti – la morte corale, la condanna, la fine del tempo e quelli che vi sopravvivono – che vantano risposte giuste solo a metà.

Copertina AnnaAnna si muove lungo panorami monocromi alla ricerca di cibo, poi del fratello, poi di una speranza a cui aggrapparsi, poi dello Stretto che le mostri la costa della Calabria. Perché la vicenda, che pare un blockbuster californiano, si svolge in Sicilia. E l’isola di Trinacria non è più sole e colori e alberi di pistacchio, ma una geografia pigra e brulla di infrastrutture vetuste e resti d’incendi, camion rovesciati, agglomerati residenziali che sono grappoli di tombe. Ammaniti, con l’indifferenza dell’anatomopatologo, narra le stanze e le piante e i cadaveri, accenna incurante le innumerevoli tragedie domestiche, dipinge di Anna un profilo d’umanità mediocre. Capace di rarissimi guizzi di pietas nei freddi calcoli della sopravvivenza, Anna affronta il quotidiano sfogliando il “Quaderno delle Cose Importanti”. Compilato dalla madre appena prima di tirare le cuoia per permettere alla prole di tirare a campare, nei pochi anni rimanenti prima del loro redde rationem. Parimenti inevitabile, perché il virus c’è e non si scappa, ti restano da vivere gli stessi anni di un carlino. La madre, Maria Grazia, è sempre presente: uno scheletro, tatuato con i pennarelli, composto come una madonna in un letto matrimoniale, agghindato di gioielli che paiono cascate di ex-voto.

L’empatia è aliena, all’autore e alle figure che si muovono nella storia: il fratellino Astor ha nove anni ma non è propriamente un campione d’arguzia; un cane senza colpa sperimenta tre nomi e il veleno che gli uomini scagliano contro il creato; il personaggio più luminoso, un estremo cultore dell’arte della gioia, muore da stupido in un incidente motociclistico. Non ci sono rivincite.

La terminologia è inelegante, la scrittura documentaristica – come può descriversi l’abisso senza lirica? Eppure scorre sotterraneo un flusso di luce che via via perde polvere, si fa più splendente, espande finanche un flebile orizzonte di speranza. Anna “se ne ammala”, di speranza, perché – come in un Cuaròn al contrario (rivedetevi Children of Men, 2006) – i bambini senza adulti si raccontano insistentemente un gossip di salvezza: qualche Grande s’è salvato, e sta nel continente. Basta questo, basta cercarne uno, ed affidarsi ai flutti dello Stretto, ad un pedalò, per non lasciarsi scappare una scommessa di redenzione.

Ammaniti + caneIl meccanismo della malattia è ironico e perfetto, te lo concedo, caro Niccolò: ché la condanna a morte sopravviene quando il corpo, seppur acerbo, è pronto a dare la vita. Hai elaborato un concetto da brividi, se “la vita non ci appartiene, ci attraversa”. Ti concedo anche gli strappi di tenerezza che si contano sulle dita, e che riguardano il cane – perché anche tu hai capito che spesso sono solo le bestie a far riaffiorare l’umano. Hai scritto un libro bello, macchiato e luminoso.

Perché Anna è una danza lenta e nera, che t’attanaglia e ti trascina, ti culla e non ti muove simpatia: ma preghi più di lei che per quest’umanità amputata ci siano ancora primavere, una speranza claudicante, una luce che non si spenga dopo Scilla e Cariddi.

Titolo: Anna

Autore: Niccolò Ammaniti

Anno: 2015

Editore: Einaudi

274 pagine

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