American Honey. Una luce di speranza in un mondo che scompare
Rappresentare la povertà è un affare delicato. Specialmente se si tratta della povertà di un Paese di cui è stato raccontato tutto, come gli Stati Uniti. Quando penso ai poveri statunitensi, sono quasi certa che le immagini che mi compaiono davanti agli occhi sono pressoché le stesse che compaiono davanti agli occhi di chiunque altro – buste unte di cibo spazzatura, lattine di birra sul pavimento, pance grasse e jeans, armi da fuoco, forse, ragazzini selvaggi, patii coperti di ciarpame, e chi più ne ha più ne metta. Per quanto si possa essere consapevoli del grado di approssimazione di questa fotografia, la sovrabbondanza di documentazione al riguardo non fa che confermare lo stereotipo e la generalizzazione alimentati dall’industria cinematografica.
Uno stereotipo deve pur nascere da un qualcosa di reale, però – e se trattato con sufficiente delicatezza e rispetto, se osservato con occhio amorevole, anche un cliché può dar vita ad un qualcosa il cui valore trascende le sue origini. Dopotutto, questa è una delle più grandi magie di cui il vero artista è capace. E Andrea Arnold, regista britannica tra le cui opere più acclamate spicca Fish Tank, con American Honey dimostra ancora una volta di avere la delicatezza necessaria per guardare senza giudicare – di essere in grado di trovare bellezza anche nei posti più disperati, per parafrasare Rihanna (parte della colonna sonora super commerciale del film).
Colpita da un articolo del New York Times del 2007 che raccontava la vita difficile delle cosiddette mag crews americane – gruppi di ragazzi provenienti da situazioni familiari difficili che, reclutati da ambigui rappresentanti di case editrici di riviste, si ritrovano a vivere on the road cercando di vendere sottoscrizioni porta a porta –, Arnold decise di abbandonare per una volta il vecchio continente, e di lasciarsi guidare dal suo istinto, attraversando l’America in macchina alla ricerca del suo film. American Honey è l’affascinante risultato di questo periodo di esplorazione.
In una breve sequenza di apertura che è un pugno nello stomaco, facciamo la conoscenza della nostra protagonista Star sul retro di un supermercato, dove la troviamo intenta a rovistare tra la spazzatura con due bambini – i suoi fratellini, di cui si prende cura al posto di una madre assente ed un patrigno beone e molesto (nel senso più antipatico del termine).
Mentre aspetta che una macchina si fermi al suo pollice alzato (“look sad!” intima ai fratellini), un pulmino bianco le passa davanti, pieno di ragazzi della sua età – e uno di essi la guarda. Vedendoli fermarsi pochi metri più avanti, nel parcheggio di un grosso supermercato, americanissimo in tutto e per tutto, Star segue il suo istinto, e li raggiunge.
All’interno, il ragazzo di cui Star ha catturato l’attenzione la vede quasi immediatamente, si ferma, le sorride; quando dagli altoparlanti esplode il tormentone di Rihanna We Found Love, il ragazzo comincia a ballare senza staccare gli occhi da lei, circondato a breve dal suo branco di piccoli outcast, che segue il suo capo senza seguirne però lo sguardo, e, come un pavone che sfoggia il suo spettacolare piumaggio, salta su una cassa (sotto lo sguardo incredulo di una grassa cassiera, che chiama la sicurezza).
Quello che avviene in questi pochi minuti tra i due ragazzi, questo silenzioso corteggiamento dall’aria stranamente arcaica, questa seduzione e conversazione fatta di sguardi e sorrisi e linguacce, è molto più eloquente di mille parole. Quando questo buffa danza di corteggiamento viene interrotte e il ragazzo sbattuto fuori, Star lo incontra nel parcheggio, dove lui le dice di ritornare la sera stessa, per partire con lui e la sua gang, lasciandosi tutto alle spalle.
É così che ha inizio l’avventura di Star, che si snoda sulle strade assolate del Midwest americano attraversando aree semi-desertiche punteggiate di centri abitati dall’aria polverosa, zone verdeggianti in cui si affollano residenze eleganti e quasi lussuose, e regioni industriali deturpate dalla mano dell’uomo. Accolta amichevolmente ma senza particolare calore dai ragazzi, chiaramente abituati ad un ricambio frequente, e dalla loro manager, la bellissima Crystal (la nipotina di Elvis), Star entra così a far parte di una mag crew.
Incentrato sulla magnetica, cruda energia di Sasha Lane nei panni della protagonista, American Honey è tanto la storia di Star quanto quasi un documentario sulla crew che la arruola – composta quasi esclusivamente di ragazzi reclutati per strada, sulle spiagge, nei centri commerciali.
Per quanto Arnold cerchi di coinvolgerci in questo secondo aspetto del film, però, non riesce a lasciare il suo sguardo sugli altri ragazzi abbastanza a lungo da creare un vero contatto emotivo, preferendo invece indugiare su di loro come gruppo; il risultato è che la parte documentaristica, che sarebbe e anzi avrebbe dovuto essere molto coinvolgente ed informativa, manca di spessore ed è a tratti addirittura noiosa. Forse è anche per colpa dell’incredibile carisma della protagonista, e della potenza dell’alchimia che si crea fin da subito tra lei e il veterano della crew Jacob (un incredibile Shia LaBeouf!).
L’occhio della regista è innamorato di Star e del suo volto mobile e tremendamente espressivo, da cui trapela allo stesso tempo una grande dolcezza ed un’indomabile forza; conseguenza di tale amorevole fissazione è che anche le inquadrature che vorrebbero essere neutrali, come un semplice inno alla bellezza della natura o un’osservazione quasi apatica della vita del gruppo, diventano parte della coscienza di Star. Essendo lo spettatore in viaggio insieme a lei, questa coincidenza di vedute è naturale, e Star è l’unico personaggio in cui riusciamo ad entrare – Jacob e Crystal rimangono distanti, irraggiungibili, imperscrutabili, mentre i ragazzi sono purtroppo figure appena abbozzate.
La sensibilità di Star, la cui attenzione si posa sui fiori di campo, sugli insetti, sugli animali e sui bambini, sulle ombre proiettate sui muri sporchi dei motel dove si ritrova accampata, commuove e incanta, e la rende una figura quasi simbolica. In un mondo triste e misero, dilaniato dalla povertà, marcato dall’ineguaglianza sociale e dalla violenza, in cui i bambini perdono l’innocenza insieme ai denti da latte, Star sopravvive e si eleva grazie alla sua innata capacità di astrazione.
Infastidita dalle bugie che i ragazzi della crew raccontano ai loro potenziali clienti, inorridita dalla nera miseria che incontra in alcune case, Star non si lascia mai piegare o intristire; perdendo giornate di guadagni, fa la spesa per dei bambini nella cui casa nota il frigo vuoto, oppure manda a monte con irriverenza le vendite di Jacob perché infastidita dai toni dei clienti. La sua impulsività è metafora della sua connessione con un mondo che scompare – un’esistenza semplice e spartana, in sintonia con la natura – ed è il segreto della sua forza.
Sebbene a tratti incerto, American Honey è un viaggio appassionante ed esistenziale, che, pur raffigurando senza filtri un universo cupo, tragico ed alienante, riesce a far splendere una fioca ma decisa luce di speranza – non a caso il nome della sua protagonista è Star.
Titolo | American Honey
Regia | Andrea Arnold
Anno | 2016
Durata | 162′