È solo la fine del mondo. American Dream degli LCD Soundsystem
Non è facile essere James Murphy. Non è facile essere l’uomo che al principio del nuovo millennio ha portato gli indie-kids sulla pista da ballo con tre clamorosi album a nome LCD Soundsystem, capaci di mettere insieme punk, dance e testa indipendente. E non è facile tornare se nel 2011 hai deciso di salutare tutti con un concerto di quattro ore al Madison Square Garden – “taci e suona le hit!”, l’hanno chiamato.
Tutto è ripartito da David Bowie, dice Murphy, che lo avrebbe voluto come produttore per il suo Blackstar: “ti senti a disagio, all’idea di riunire la band? Bene, dovresti proprio. Dovresti sempre sentirti a disagio”. La tensione emotiva come motore creativo: evidente in tutta l’epopea del Sottile Duca Bianco, evidente anche qui. Così, dopo il rituale tour di riscaldamento e una gran successione di singoli, è arrivato American Dream: titolo quantomai esplicito che fa il paio con il cielo azzurro e le nuvolette serene della copertina. Tutto il contrario dell’onda scura, densa di ricordi e ansie che travolge e fa battere piede e cuore, una volta messo il disco sul piatto.
Al principio di tutto c’è un ticchettio calmo, implacabile. Poi entrano i synth, il basso e una voce che sussurra, parla, implora un amore perduto. Oh Baby dura 6 minuti ed è talmente bella che per me il disco potrebbe pure finire qui: se sei cresciuto a pane e Suicide (ehm), sentire una cosa che vale Dream Baby Dream è una cosa che ti stende in un attimo.
Già da qui American Dream si mostra per quel che è: un disco sulla fine delle cose. Dell’amore, dell’amicizia, della vita, della coolness, di una certa idea di musica, dei rapporti e della società così come le abbiamo intese finora. E tutto questo raccontato da Murphy, musicofilo snob e overthinker per eccellenza, un DJ che nel suo primo, pazzesco singolo (Losing My Edge) si era sentito in dovere di elencare – nemmeno ironicamente – tutte le band della sua discoteca, queste qui:
This Heat, Pere Ubu, Outsiders, Nation of Ulysses, Mars, The Trojans, The Black Dice, Todd Terry, The Germs, Section 25, Althea and Donna, Sexual Harrassment, a-ha, Pere Ubu, Dorothy Ashby, PIL, Fania All-Stars, The Bar-Kays, The Human League, The Normal, Lou Reed, Scott Walker, Monks, Niagara, Joy Division, Laurent Garnier, The Creation, Sun Ra, Scientists, Royal Trux, 10cc, Rammellzee, Eric B. and Rakim, Index, Basic Channel, Soulsonic Force (just hit me!), Juan Atkins, Manuel Göttsching, David Axelrod, Electric Prunes, Gil Scott Heron, The Slits, Faust, Mantronix, Pharaoh Sanders and The Fire Engines, The Swans, the Soft Cell, The Sonics
Dopo questa introduzione, American Dream decolla con i ritmi sostenuti di Other Voices, i Talking Heads di Remain In Light che buttano giù la porta del club per partecipare al ballo. E noi balliamo, facendo finta di non vederle, ma alle finestre del locale si affacciano le ombre lunghe dei cambiamenti necessari e della vecchiaia: le stesse ombre che avvolgono le chitarre angolari di Change Yr. Mind, in cui si rievoca il periodo dello scioglimento degli LCD Soundsystem, quando Murphy si pensava troppo vecchio per avere ancora cose da dire.
In mezzo sta lo sfogo più esplicito di tutti. How Do You Sleep? è complessa, nera e percussiva, una resa dei conti con Tim Goldsworthy, che con Murphy era titolare della DFA Records – una storia finita non proprio benissimo, ecco. Nove minuti che si fanno ballabili solo nella seconda parte e si gonfiano di suoni scuri, tanto scuri che poi sono un bel sollievo apparente la disco sarcastica di Tonite e la wave fluviale di Call The Police, solare nei suoni anche se non c’è proprio niente da ridere:
the old guys are frightened and frightening to behold
the kids come out fighting and still doing what they’re told
but you’re waking a monster that will drive you from your hoary holes of gold
and your body will get cold
Tocca ad American Dream – la canzone – abbassare i giri. Una ballata sulla quale si lascia il cuore, mentre Murphy racconta dello svegliarsi la mattina, non si sa bene dove, in acido e vicino a non si sa bene chi, del sole che mostra la tua età allo specchio. Vuoto, fuori e dentro, come quello attorno ai 3’15”, uno di quegli istanti perfetti in cui la musica da sola trova il modo di dire esattamente ciò che l’intero pezzo vuole significare.
Alla fine resta lo spazio per altre chitarre taglienti e altre paranoie, nella tiratissima Emotional Haircut – una cosa che dovreste mettere in tutte le playlist fatte per ballare, da qui all’eternità. “Sul tuo telefono hai numeri di persone morte che non riesci a cancellare”, dice la canzone, ed è l’introduzione perfetta ai dodici minuti della conclusiva Black Screen, commovente resoconto emotivo della scomparsa di David Bowie, cui Murphy guardava come a un amico e a un padre. Lo va a cercare dappertutto – nei ricordi, nelle mail, nei rimpianti – ma sa che potrebbe essere dappertutto sullo schermo nero del titolo, il cielo notturno in cui vivono le stelle.
È la chiusura migliore possibile per un album che finirà nelle classifiche di praticamente ogni rivista musicale di fine anno, che ti fa tenere il ritmo e perdere la testa raccontando di una malinconia senza fondo, che guarda al tempo come se il tempo non ci fosse più. Perché “la vita è finita, ma cazzo sembra eterna”.
Titolo | American Dream
Artista | LCD Soundsystem
Anno | 2017
Casa discografica | Columbia