American dream e “Pomodori verdi fritti”
Pochi giorni fa degli americani inediti si sono seduti intorno a un tavolo a ringraziare per ciò che hanno. Dico inediti per dire sconvolti dalla loro stessa rivelazione, e dico rivelazione per dire scelta politica, dove si dice scelta politica per dire Trump. Ma tra il ciuffo biondo (?) del neo-eletto presidente e il tacchino dorato (!) del Ringraziamento ci starebbero un paio di riflessioni.
Gli USA, nel corso della loro storia, hanno ottenuto e dispensato (spesso anche quando non richiesto) parecchie belle cose per cui ringraziare, tipo combattenti come Rosa Parks, i brividi dei film di Hitchcock, i jeans di Bruce Springsteen, la distesa umana di Woodstock e l’I have a dream di Martin Luter King, gli hot dog caldi dei chioschetti a Manhattan, i capoccioni della Sylicon Valley, la Route 66, Ernst Hemingway e il burro di arachidi (tanto per citare la punta dell’iceberg). Pur sapendo che l’American Dream rimane il sogno che è mentre la realtà è ben altra cosa, non ci si aspettava un così brusco risveglio. Nel giro di qualche mese di pronostici attendibili quanto l’oroscopo di Donna Moderna, le contraddizioni del Nuovo (‘na volta) Mondo sembrano aver subito un’accelerazione preoccupante. La deriva trumpiana, si è detto e scritto, è il frutto ultimo della pancia dell’America, già gravida da tempo di rabbia, angoscia, paura e chi più ne ha più ne metta. Come a dire, i ciccioni col fucile preso al super-market si sono alzati dal divano e sono andati a votare (e sono talmente incazzati da aver abbandonato a casa i bidoni di ali di pollo fritte). Eppure fu in quella stessa pancia, metaforica e geografica, che i Padri Pellegrini celebrarono per la prima volta il Thanksgiving, e in quella stessa pancia cominciarono le lotte per i diritti civili degli afroamericani e appunto in quella stessa pancia è ambientato uno dei film più famosi e più ribelli di Hollywood: “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”.
Sotto l’apparenza di amarcord drammatico votato al successo commerciale, “Pomodori verdi fritti” è un film sul coraggio. Ed è tutto al femminile, roba che nel 1991 non era ancora tanto scontata.
Evelyne (Kathy Bates) è una casalinga di mezza età dipendente dalle barrette al cioccolato tanto quanto dal marito ottuso col cappellino da baseball sempre calcato in testa. La svolta nella sua vita arriva quando, per pura cortesia, si ritrova a sorbirsi i racconti di una vecchina in una casa di riposo, Ninny (Jessica Tandy). Ovviamente la stramba anziana signora, che con Evelyne ha in comune una vita di sopportazione che però non pare pesarle, è entusiasta di avere finalmente un’uditrice per i suoi ricordi. Così, la narrazione del film ci trasferisce nei flashback di Ninny e nelle vite degli abitanti di Whistle Stop, la cittadina dell’Alabama ormai fantasma un tempo ricca per la sua posizione lungo i binari ferroviari, dove il caffè di Ruth (Mary-Louise Parker) e Idgie (Mary Stuart Masterson) serviva ottimi pomodori verdi fritti. La cornice contemporanea della vita infelice di Evelyne serve, insomma, a mettere a paragone il suo stato di immobilità depressiva con il coraggio e l’anticonformismo di Ruth e Idgie: in scena, una parabola positiva sul cambiamento.
Tra il romanzo di Flannie Flagg da cui il film di Jon Avnet è tratto, le differenze non sono poche, tanto che all’epoca le scelte di sceneggiatura furono oggetto di proteste: nel libro, in effetti, la storia di Idgie e Ruth è dichiaratamente una storia d’amore lesbico, mentre nella trasposizione cinematografica c’è spazio appena per il sospetto che la loro amicizia sia qualcosa di più. Inoltre, molti personaggi rilevanti del libro sono stati del tutto omessi nel film, scelta questa ben più comprensibile se si pensa ad un’economia narrativa già piuttosto complessa, incastrata poi nella struttura a cornice con il tempo presente che segue una sua evoluzione in relazione ai racconti/ricordi di Ninny. Ma il successo del film non sta di certo nella sua scrittura, né nella regia, né in altri tecnicismi da cinefili. Quello che colpisce e che rimane e che sì, ammettiamolo, strappa più di una lacrima, è il messaggio.
Idgie è un’outsider, un maschiaccio e una solitaria, ferita e per questo incapace di vivere secondo le leggi; la sola che riesce a relazionarsi davvero con lei, oltre all’amico di sempre, il nero Big George, è Ruth, altrettanto ferita e non meno sola. “Pomodori verdi fritti” è un film di pancia, che parla alla pancia con la pancia chiamando continuamente in causa una morale inadatta ad affrontare la vita: sono i princìpi a essere sbagliati, mai le persone. Anche chi abusa, chi ha il ruolo di carnefice, è in realtà per primo vittima d’imposizioni sociali lontane dal “buon sentire” degli esseri umani dalle quali non è capace di svincolarsi. Per tutti loro ci sarà un piatto caldo al cafè di Whistle Stop. Ecco allora il perché di tanto successo di quei pomodori verdi fritti: la solidarietà. Solidarietà verso i mendicanti, verso i neri, verso gli omosessuali, verso tutti quelli, cioè, che non vanno in chiesa la domenica a sentire le prediche del pastore. D’altra parte, però, c’è un’aggressione impietosa e inarrestabile contro gli incappucciati del Ku Klux Klan che prendono a frustate Big George (e che oggi, spaventosamente, tornano di moda con o senza cappucci bianchi); contro il marito di Ruth che su di lei usa violenza fisica e psicologica e che, infatti, finisce ammazzato come un maiale, in pezzi e arrosto sul barbecue e servito poi all’affamato ispettore di polizia. “Pomodori verdi fritti”, insomma, è un film viscerale nel senso che prende una certa marca sanguigna, schietta e anche violenta, e la usa per il bene. La forza del Sogno Americano, del resto, si concentra nel desiderio di riscatto sopra ogni altra cosa. Dipende solo da come si sceglie di esaudirlo, questo desiderio, una volta svegli.
Pomodoro for president
Il pomodoro, per il suo stesso nome, non può che essere un godurioso portatore di pace. Fresco, saporito, rosso, tondo: è democratico (più di Hilary). Per di più accoglie parecchie varianti cromatiche che non si permette di definire razze. E siccome è assolutamente incapace di fare del male a chicchesia, è l’ingrediente ideale per qualsiasi melting pot di successo. Ci manca solo che si occupi della riforma del sistema sanitario e siamo alla perfezione.
Ingredienti per riempire le pance di 6 ciccioni dell’Alabama davanti alla tv:
- 2 kg di pomodori verdi
- 2 uova
- Farina 00
- Farina di mais
- Sale
- Olio di arachidi per friggere
Chiariamo subito che quando si parla di pomodori verdi non ci si riferisce a quei poveri pomodori olandesi che non hanno mai visto il sole, né a quei pomodori nostrani ma industriali che maturano nei banchi frigo dei Carrefour, no! I pomodori verdi sono una variante tipicamente americana che si mangia sempre, sempre cotta. La cosa più difficile infatti, se non siete (ed evidentemente non lo siete) a Kansas City sarà trovarli al mercato. Una volta riusciti nella caccia miracolosa al pomodoro di minoranza etnica verde, non resta altro da fare che lavarli e tagliarli in fette spesse circa 1 cm. I pochi semi che hanno vanno ovviamente rimossi, dopo di che basterà salarli leggermente, lasciarli scolare dell’acqua di vegetazione per una mezz’ora e tamponarli. Poi, una ad un’una, passate le fette di pomodoro nella farina 00, poi nell’uovo sbattuto e salato, poi di nuovo rapidamente nella farina e nell’uovo e, infine, nella farina di mais. Con un pizzico di crudeltà che non guasta mai (oh tutto sto buonismo liberista!) immergete le fette nell’olio bollente e lasciatele friggere finché la crosticina non avrà preso quel bel colore ambrato simile all’oro dei fiumi del vecchio west (altro che le 50 sfumature di arancione del fondotinta di Trump!) Quando avrete riempito un bel piattone king size, stappate una dozzina di birre ghiacciate, imbracciate il benjo e intonate “Sweet Home Alabama”. E dite ai trumpisti incazzati di mettere pomodori nei loro cannoni.