Allen Ginsberg e la gentilezza
“Così strappai lo scheletro spesso del girasole e lo piantai al mio fianco come uno scettro”
Incoraggiami, Articolo, a leggere Allen Ginsberg. Ad affrontare la sua matassa intricata di parole e peli pubici, ad affrontare la matassa dei suoi lunghissimi versi allucinati. Sono stanca, pigra, e questo vagone della metro sa di aglio e Chanel n.5. Queste poesie sono troppo lunghe.
“Ho visto le menti migliori della mia generazione / distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche”
7 ottobre 1955, San Francisco, Six Gallery. La serata letteraria è stata organizzata dal movimento culturale “Poetry Reinassance of San Francisco”: si sono presentate circa centoventi centoquaranta persone – che respirano eccitate l’aria di questa piccola galleria d’arte, mentre Jack Kerouac fa circolare una bottiglia di Thuderbird fra i loro brusii attese e cappotti.
Allen Ginsberg tossisce sul palco, sorride, e dalla tasca destra della giacca sfila alcuni fogli stropicciati: sta per leggere “Urlo” per la prima volta.
“che giravano e giravano a mezzanotte tra i binari / morti chiedendosi dove andare, e andavano, senza / lasciare cuori spezzati”
Ti saluto all’inizio di una grande carriera. E’ il pizzino che Lawrence Ferlinghetti – il fondatore della casa editrice City Lights Bookstore – gli scriverà dopo averlo ascoltato, offrendosi di pubblicare il suo poema. Sono le stesse parole che Emerson scrisse a Walt Whitman all’ uscita della prima edizione di “Foglie d’erba”.
L’anno successivo Ferlinghetti fa stampare “Howl” da un editore inglese, Villiers, e lo importa così negli Stati Uniti: l’ufficio doganale non si cura di leggerlo e rilascia il permesso alla pubblicazione senza soffiare nemmeno un alito di gatto. Quando però si accorge che il libretto circola con tanto libero entusiasmo per le strade di San Fran, ne fa sequestrare più di cinquecento copie – siamo nel ’57 – e chiede che Ferlinghetti venga processato per oscenità / Ferlinghetti finisce in prigione.
“che mordevano i poliziotti nel collo e strillavano di / felicità nelle camionette per non aver commesso / altro delitto che la loro intossicazione e pederastia / pazza tra amici”
“Davvero sono stato attaccato per questa specie di gioia?” – è lo stupore immacolato di Ginsberg. Che durante il processo sarà a Tangeri da William Burroughs – dal quale già si è recato Kerouac – per aiutarlo a cucire insieme i pezzi indemoniati di “Pasto nudo”. A Burroughs e Kerouac, oltre che a Neal Cassady (e in origine a Lucien Carr) è dedicato “Urlo”. Gli angeli indemoniati, gli Sconfitti & Beati, la Beat Generation.
Il processo a “Urlo” è Storia: è l’incoronazione, e l’iniziazione al successo, di un Poeta.
“che urlavano in ginocchio nel subway e venivano / trascinati dal tetto sventolando genitali e / manoscritti”
Allen Ginsberg esce in Italia per la prima volta nel 1965 per Mondadori con “Jukebox all’idrogeno”, una raccolta di poesie tradotta e curata da Fernanda Pivano. E’ sua la traduzione di tutti i versi che ho scelto: coi guanti da rettoscopia, respirando la polvere delle librerie dell’usato come fosse benzedrina, ho trovato un oggetto santo.
Dalle lezioni di Fernanda Pivano ho imparato ad aspettarmi qualcosa dalle poesie di Ginsberg, come una preveggenza e un pregiudizio: come una promessa. Allen Ginsberg è uno sproloquio prolisso, retorico ed esaltato; è una disperata giovinezza romantica, una ballata psichedelica: è desiderio.
Ho imparato che Allen Ginsberg è ritmo bebop, jazz & mantra. Allen Ginsberg è Walt Whitman. William Blake, Herman Melville.
È santo, è pornografico. Un sostantivo aggettivato un respiro privo di verbi, un profeta, libero e anticonformista.
Ma poiché questi non sono pensieri miei, ma pensieri imparati – fiori non su di me sbocciati! – devo metterli da parte: e invadere la casa-della-poesia a piedi scalzi, sdraiarmi vergine accanto a lei, dimenticando tutto ciò che penso di sapere per domandarmi cosa so veramente, come individuo.
“e l’ultima stanza / ammobiliata svuotata fino all’ ultimo pezzo di / mobilia mentale, una rosa di carta gialla attorcigliata / su una gruccia di fil di ferro nell’ armadio, / e perfino immaginaria, nient’altro che / un pezzetto di speranza nell’ allucinazione – ”
Dimmi, Articolo, chi può essere oggi Allen Ginsberg. E chi posso essere io, col mio libro di poesie sulle ginocchia, in un vagone metro che sa di aglio e Chanel n.5.
Da quella serata alla Six Gallery sono passati sessant’anni: l’oscenità l’anarchia la denuncia di “Urlo” si sono smorzate, poiché il Tempo è cambiato e la mia generazione, un po’ più libera un po’ più emancipata, è più impegnativa da sconvolgere.
Moloch, la società moderna denunciata in “Urlo” – violenta ipocrita e inibita – non schiaccia più così forte coi suoi muscoli di conformismo di mediocrità di anonimità. Ma anestetizza. E addormenta.
“col cuore assoluto della poesia della vita macellato / dai loro corpi buono da mangiare per mille anni ”
Unisco la mia stanchezza e le mie spalle curve ai miei compagni di viaggio: un fascio di asparagi-pendolari, studenti che rotolano in questo vagone come biglie, una pelliccia un bastone, e moltissime mani. Ho bisogno di una parola-gentilezza, adesso. Ho bisogno di guardarmi attorno e origliare una conversazione spontanea, un imbarazzo. Ho bisogno di un contatto visivo, ne-ho-bisogno!, e anche di un girasole (“impazzito di luce”).
Ho bisogno di un sogno-rabbia-beat. E di non addormentarmi prima della mia fermata. Di essere il cane che defeca ne “Il buon samaritano” di Rembrandt, di essere materia, di essere un libro di poesie, di sentire che se urlassi qui, in metropolitana, questo farebbe la differenza: una smorfia sconvolta, un sogghigno, una mano tesa con un cioccolatino.
Tutto il mio bisogno si perde fra i versi di Allen Ginsberg, li annaffia li mangia li deturpa li stropiccia li santifica li masturba. Non credo che oggi possa essere il poeta di una Generazione, e quindi di una ribellione-esplosione, forse perché si è consumata l’idea stessa di gruppo-Generazione. Ma è ancora il poeta dell’individuo, per l’individuo ( che non si sconvolge che non si inibisce ma ) si isola cupamente, e curva le spalle: Allen Ginsberg sarà per lui la “Santa la soprannaturale ultrabrillante intelligente gentilezza dell’animo”. Sarà, per lui, un girasole.
“Il peso del mondo
è amore.
Sotto il fardello
della solitudine,
sotto il fardello
della insoddisfazione
il peso,
il peso che portiamo
è amore.
Chi può negarlo?
Nei sogni
sfiora
il corpo,
nel pensiero
costruisce
un miracolo,
nell’immaginazione
langue
finché è diventato
umano…
si affaccia dal cuore
ardente di purezza –
perché il fardello della vita
è amore,
ma trasportiamo il peso
stancamente,
e così dobbiamo riposare
tra le braccia dell’amore
finalmente,
dobbiamo riposare tra le braccia
dell’amore.
Non c’è riposo
senza amore,
né sonno
senza sogni
d’amore –
pazzi o gelidi,
ossessionati dagli angeli
o da macchine,
il desiderio estremo
è amore
– non può essere amaro
non può negare,
non può contenersi
se negato:
il peso è troppo greve
– deve dare
senza nulla riavere
come il pensiero
è dato
in solitudine
con tutta l’eccellenza
del suo eccesso.
I tiepidi corpi
brillano insieme
nel buio,
la mano si muove
verso il centro
della carne,
la pelle trema
di felicità
e l’anima viene
gioconda nell’occhio –
sì, sì,
è questo che
volevo,
ho sempre voluto,
ho sempre voluto,
ritornare
al corpo
in cui sono nato.”
un gran bell’articolo ! complimenti
Grazie mille, per averlo letto e per i complimenti! – Stefania