“All is as all should be”: l’EP dei The Dear Hunter scritto dai fan
Casey Crescenzo dev’essere uno che dorme pochissimo e non si lascia mai in pace.
Quando l’ho incontrato mi sono limitato a tremare e dirgli che non avevo mai sentito una voce così incredibile, lui era sudato quindi non ci siamo abbracciati. Lo capisco, nemmeno io abbraccio mai nessuno dopo i miei concerti se prima non mi fanno cambiare la maglietta, ma il vero problema è che dopo i miei concerti non mi vuole abbracciare praticamente nessuno.
Sto perdendo focus, torniamo in tema.
Dicevo, a giudicare dalle sue produzioni secondo me Casey non dorme tanto, e quando dorme parla, e quando è sveglio lo vedi camminare per strada assorto in chissà quale percorso interiore.
Per chi non lo conoscesse (shame on you) questo orsetto barbuto è cantante e mente dei The Dear Hunter, band americana stilisticamente indecifrabile. In quindici anni di carriera hanno pubblicato un solo disco inteso come raccolta di canzoni senza legami, il resto è un susseguirsi di progetti, concept album, sfide. A me i gruppi così stanno molto a cuore, ché un conto è scrivere canzoni e un altro è avere un approccio artistico anche alle sovrastrutture del mondo musicale.
Tanto per dare un’idea più accurata: 5 album (intitolati Act I, II, III, IV, V) raccontano la vita di un ragazzino chiamato, appunto, The Dear Hunter. Arriverà un Act VI a chiudere questo progetto enorme che farebbe impallidire un pochino anche quella lì che scrive del maghetto con gli occhiali.
E cosa dire di The Color Spectrum? 9 EP da 4 canzoni ognuno, pubblicati simultaneamente, uno per ogni colore dello spettro cromatico (più bianco e nero) con una varietà sonora senza eguali e una capacità quasi preoccupante di raccontare uno stimolo visivo e il relativo colore associato con un supporto per semplici orecchie. Questo è forse uno dei progetti che più mi ha avvicinato ai The Dear Hunter: se 36 canzoni possono spaventarvi non ve ne farò una colpa, ma sappiate che ne vale la pena dal primo all’ultimo minuto.
Dài, ascoltatevelo vi prego.
Entriamo nel vivo della recensione: fast forward al 2017, esce “All is as all should be”.
In apparenza, un semplice EP di 6 canzoni.
In realtà, uno dei progetti più ambiziosi della band e forse pure della musica rock.
Ogni canzone, infatti, è stata scritta scegliendo un amico della band e chiedendogli di rispondere a questa domanda: “Che tipo di canzone vorresti ascoltare, e cosa vorresti che raccontasse?”. In poche parole, 6 canzoni tailor-made, altamente personalizzate, disegnate sulle specifiche di chi tiene in vita questi progetti: fan e amici più stretti.
Cito Casey, dalle note del booklet:
“Negli ultimi 15 anni, parlando con migliaia di persone, mi è diventato chiaro che siamo tutti creativi. Volevo un’opportunità per mostrare la creatività degli altri, alcuni dei quali non avrebbero mai pensato di mostrare quella parte di sè. Volevo essere un tramite. Accettate questo progetto come segno della nostra riconoscenza. Potrei scrivere una canzone per ognuno di voi e non trovare mai ridondanze. Siete tutti unici.”
E uno dice: bene, è una figata. Premiamo play.
Piano, non è mica finita.
Per rendere il tutto ancora più personale, ancora più intimo, ancora più significativo, hanno registrato le 6 canzoni in casa delle persone per cui erano scritte, nei day-off del tour, allestendo uno studio di registrazione mobile in ogni abitazione e trascorrendo in quei luoghi un’intera giornata. A sera, una cena tutti insieme prima di ascoltare il risultato finale.
Ma non è bellissimo? A me è scesa una lacrimuccia.
Passiamo alla musica, che poi se il concept fosse una figata e la riuscita uno schifo non vi starei scrivendo tutto sto papiro.
Vi racconto una canzone alla volta, e per ognuna una frase che mi è rimassa impressa.
L’EP si apre con “The Right Wrong”, la più The Dear Hunter del mazzo. Il prog che fa capolino negli strumentali, le voci multistrato a ricordarci che le lezioni di Beatles e Queen non sono andate sprecate, il ritornello aperto e melodico e le strofe diversificate per non dare punti di riferimento sempliciotti.
“Still it’s hard not to imagine
How different our lives would be if given the chance
To fix every failure, to rewrite the canon
What character would I be if my conscience was clean?
What would become of me?”
Segue “Blame Paradise”, sicuramente il momento più uptempo e aggressivo. Ciò che mi colpisce maggiormente (spoiler alert: è un tecnicismo che vi annoierà) è che tutta questa rabbia arriva praticamente al netto delle chitarre elettriche. C’è vita oltre gli AC/DC. Amen.
“I can’t believe my eyes
The truth’s no longer deified
Instead we wade the wreckage of this
False information that you can’t deny
Tell me this isn’t real life”
“Beyond the Pale” apre una sorta di lato B, caratterizzato da bpm più lenti e tante chitarre acustiche. È la parte dolce dell’EP, una sorta di ninna nanna minimale condita da qualche soundscape e piccoli colori superflui (e perciò bellissimi). Vorrei addormentarmici ogni sera.
“What better way to know the places you won’t go
Than recognizing where we haven’t been?”
La coda della precedente apre “Shake me (Awake)”, che ha causato una sorta di crisi nella mia coppia.
Per me siamo di fronte a una canzone pop in tonalità maggiore, di quelle che vedresti bene in qualche disco britannico post-beatlesiano. È più divertente e allegra di quello che sono solito ascoltare, ma è un’allegria che mi contagia e che dura solo se uno evita di leggere il testo.
Martina invece ne esegue una sua versione parodistica che la riduce a una sigla di Spongebob.
Probabilmente la verità sta nel mezzo, e mi do un’auto-pacca-sulla-spalla per aver dato voce a un contraddittorio.
“Come and shake me awake
And pull me far away
From the endless circles I’ve been running in
I’ve had about all I can take
So take me far away
To a life that’s far less ordinary
Before I’m in the mortuary”
Siamo arrivati al lato C, quello sperimentale e più difficile da ascoltare. So che è assurdo trovare 3 anime distinte in un EP di 6 canzoni ma tant’è, questi sono i The Dear Hunter.
“Witness Me” è un rincorrersi di ritmiche spezzate, chitarre che giocano con la stereofonia, e soprattutto una coda ossessionante in cui il coro ripete senza sosta “Keep dreaming” mentre synth e basso ballano e si avvicendano al comando, sfumando gradualmente fino a lasciare le voci a cappella. Psichedelico.
“But the valley between who I am
And who I want you to see
Is too vast to bypass
So I’ll keep deluding myself into illusion”
La title-track chiude l’EP. L’arrangiamento ricorda molto le sonorità di “Migrant”, forse il disco meno riuscito della band, ma nell’economia del disco penso che la canzone abbia un senso. È quella che mi piace meno, ma bilancia con un testo che arriva dritto al punto e di conseguenza all’organo deputato a far circolare il sangue nel corpo umano.
“As I fade away, you come to be and when the cycle ends
It begins with an unfamiliar me
You’re doomed to brave decisions I’ve made
But maybe every mistake was placed deep beneath
The current we sustain”
Okay, il racconto è finito.
Penso che questo EP sia un memento per tutti gli artisti: ricordate ogni giorno, ogni minuto, che il vostro eventuale successo dipende solo dalle persone a cui siete in grado di arrivare. I The Dear Hunter lo hanno capito e hanno dato indietro, hanno restituito grazia e ne è venuto fuori un progetto bellissimo, pieno, denso di significato.
Poi “All is as all should be” è una frase che a me, personalmente, porta tantissima speranza e serenità. Per uno che si chiede quasi tutto il tempo se passato, presente e futuro siano in qualche modo correlati e interpretabili e modificabili, non c’è niente di meglio che sentirsi ripetere che, alla fine dei conti, tutto è come dovrebbe essere. Che lo si voglia o meno.
A volte è meglio seguire la corrente che sforzarsi a remare.
Me lo tengo a mente.
Titolo | All is as all should be
Artista | The Dear Hunter
Durata | 24′
Etichetta | Cave & Canary Goods