Alice in Chains – Dirt | Risucchiati dalla piena ancora una volta
Che cosa stavo facendo il 5 Aprile del 2002?
Se i miei calcoli sono corretti, ero alle scuole medie e i miei problemi principali dovevano essere la merenda di metà mattina e riuscire a finire l’ennesimo gioco alla PlayStation.
Dall’altra parte dell’oceano, nel frattempo, se ne andava per overdose di speedball Layne Staley, cantante degli Alice In Chains, di cui, ovviamente, non ero neanche minimamente a conoscenza. All’epoca il mio mondo musicale erano Queen e Led Zeppelin, in generale il rock degli anni ’70. L’unico contatto col grunge avuto fino ad allora era stato quello con i Soundgarden, presenti nella colonna sonora del mitico videogioco di corse motociclistiche clandestine Road Rash.
Fast forward, primo anno di liceo.
Avevo scoperto già da un po’ i Nirvana, partendo colpevolmente dal Best Of postumo, e in generale iniziavo ad apprezzare sonorità più tipiche degli anni ’90. Alla mia festa di compleanno in un losco pub di Taranto, ricevevo in regalo Louder Than Love dei Soundgarden e Dirt degli Alice In Chains. Ammetto candidamente di aver adorato subito il primo e di aver faticato notevolmente col secondo, ma le cose sono poi cambiate drasticamente.
Dopo gli anni ’80, con la loro estetica estrema in qualsiasi direzione, dai colori sgargianti pop alle tinte fosche new wave, la decade successiva ha seguito, almeno per quanto riguarda chitarre e dintorni, questa seconda strada stilistica, abbandonando gli eccessi della decade precedente e riscoprendo suoni più elettrici ed essenziali, che hanno portato anche allo sviluppo di una corrente musicale fondamentale, poi definita grunge.
Se i Nirvana hanno rappresentato l’anima più punk (a tratti pop) di questa corrente e i Pearl jam quella più vicina alle sonorità settantiane classiche, Soundgarden e Alice In Chains si sono invece avvicinati maggiormente alla strada “metal” precedentemente tracciata dai Black Sabbath, seppure con evoluzioni diverse.
Non a caso, proprio i Black Sabbath sono stati spesso citati come ispirazione fondamentale sia da Layne Staley che da Jerry Cantrell, rispettivamente cantante e chitarrista degli Alice In Chains. E questo si percepisce perfettamente proprio nel loro secondo album Dirt, unanimamente considerato il loro capolavoro. Oltre che apprezzatissimo regalo di compleanno al liceo dal sottoscritto, chiaramente.
Se il disco precedente, Facelift, si avvicinava maggiormente all’hard rock e all’heavy metal più classici, è proprio con Dirt che gli Alice In Chains delineano ed esprimono chiaramente la loro personalità, che li renderà tra i più importanti portavoce del grunge ed in generale della musica di quegli anni.Rimane anche in questo disco un approccio più “metal” rispetto ad altre band del giro, ma in questo caso il mood diventa particolarmente cupo, sia per quanto riguarda la musica, che per quanto riguarda i testi.
I riff di chitarra sono ora aggressivi (Them Bones, Dam That River), ora acidi e sabbathiani (Rain When I Die), ora sludge e dall’incedere estremamente cadenzato ed inquietante (Sickman), lasciando spesso spazio ad intensi assoli dal gusto blues, ma dal suono “grosso” e distorto. Il lavoro chitarristico è sempre di grande spessore e non è un caso, infatti, che grossa parte degli sforzi compositivi dell’album siano nelle mani del già citato Jerry Cantrell, musicista dal suono e dal gusto estremamente caratteristici e riconoscibili, mai abbastanza valorizzato a parere di chi scrive.
Il lavoro nelle retrovie è affidato al basso di Mike Starr, già in aria di licenziamento sempre per dipendenza da eroina, ed alla batteria di Sean Kinney, che formano una sessione ritmica solida, di impatto e senza troppi fronzoli, perfetta per l’occasione.
A cantare c’è poi l’iconico Layne Staley, la cui voce ha un timbro ruvido, aggressivo e acido. Assolutamente unico.
La sua interpretazione, che oscilla tra rabbia, malinconia e sofferenza a seconda dei momenti, è in strettissimo legame con i testi e porta il disco ad un livello superiore.
E questo sembra già scontato ascoltando il disco, ma è ancora più facile rendersene conto ascoltando certe canzoni interpretate oggi da William DuVall, attuale cantante della band. Bravo, eh. Ma gli manca e gli mancherà sempre qualcosa in termini di interpretazione.
Dirt è da molti considerato un concept-album sulla dipendenza dalle droghe di Staley, ma questa definizione non è del tutto corretta.
È vero, in molte liriche si riconosce la personale e tragica esperienza del cantante con l’eroina, di cui sono raccontati diversi aspetti: dall’iniziale “euforia da botta” di Junkhead, in cui quasi con aria di sfida viene sbattuto in faccia all’ascoltatore quanto sia figo essere high, qualcosa che la gente normale non può arrivare a capire, arrivando alla disillusione ed alla disperazione di Angry Chair (una delle poche canzoni interamente scritte da Staley), in cui i colori della pera sono ormai scomparsi, lasciando posto al grigio.
E, in mezzo a quel grigio, ci si guarda allo specchio ormai arresi ed in caduta libera in una voragine senza fondo.
D’altro canto però, due pezzi tra i più importanti dell’album, ovvero Rooster e Down In A Hole parlano rispettivamente del rapporto tra Jerry Cantrell ed il padre veterano del Vietnam (nome in codice Rooster, appunto) e di un legame sentimentale evidentemente non privo di morbosità.
Al di là delle parole, è però possibile riconoscere un concept di Dirt nel suo mood generale: cupo, rabbioso e disilluso, che lo porta ad avere un posto speciale nel panorama grunge. Il posto di una fotografia estremamente cruda e realista di un sentimento diventato letteralmente generazionale in quegli anni; e questa fotografia è ancora più significativa se pensiamo di stare parlando di un album splendido.
Non ci sono cali di tensione, le canzoni funzionano perfettamente e attraggono tanto quanto trasmettono disagio, in modo quasi morboso: dalla terremotante opener Them Bones, all’inquietante e quasi apocalittica Junkhead, passando per brani dal sapore stoner come la title-track e ballad intense e toccanti come la già citata Down In A Hole.
Dopo circa 60 minuti l’ascoltatore si trova ad ascoltare il riff portante di basso che apre Would, ultimo capolavoro dell’album, in cui Staley ci prende per mano e ci racconta il suo oblio, che è anche quello di Andrew Wood, il cantante di un’altra storica band del periodo, i Mother Love Bone, che ha ispirato la canzone di chiusura del disco. Piccola nota di colore, rigorosamente scuro: quando si parla del legame dei nostri con il metal, non si può dimenticare il siparietto con Tom Araya, cantante degli Slayer, nella traccia nascosta Iron Gland.
La produzione, in un mix di ruvidità e riverberi tipica del periodo, dà il giusto risalto ai singoli elementi e risalta il sentimento tragico e negativo di Dirt. Anche la copertina fa molto anni ’90, con quel mix fotografico (oggi un po’ pacchiano) che ritrae una ragazza incastonata in un terreno brullo e desertico, oserei dire ancora una volta stoner.
È facile quindi capire come Dirt sia uno dei più importanti ed rappresentativi album del periodo. Di quelli che hanno fatto la storia del periodo, diventando meritatamente fonte di ispirazione per musicisti contemporanei e futuri. Ma che, nonostante questo, sono fortemente sigillati in quegli anni, nel bene e nel male.
Non si sono ripetuti e probabilmente non si ripeteranno. E probabilmente è giusto così.
Ovviamente spero che questa sia stata solo una sorta di chiacchierata tra amici, in cui, da bravi anziani, abbiamo parlato di cose già dette e ridette, rivangando in stile “ai miei tempi”. Perché dell’importanza degli Alice In Chains nel panorama rock di fine secolo non ci sarebbe manco da doverne discutere, tanti sono gli echi della loro musica anche al giorno d’oggi.
Ed è proprio il motivo per cui, ancora oggi nel 2020, ha terribilmente senso continuare a parlare di Dirt.
Titolo: Dirt
Autore: Alice In Chains
Etichetta: Epic
Anno: 1992