Come alberi | Giacometti e L’Homme qui marche

Come alberi | Giacometti e L’Homme qui marche

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Giacometti, sigarette e camminate in solitaria

Titolo: L’Homme qui marche

Artista: Alberto Giacometti

TAR: Bronzo

Anno: 1961  ca.

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“Hai come l’impressione che potresti rimanere tutta la vita davanti a un albero senza poterlo esaurire, senza poterlo capire, dato che non c’è niente da capire, c’è soltanto da guardare”
George Perec

Preambolo. La prima volta che ho incontrato un’opera di Giacometti il mio sguardo era ancora molto giovane e impaziente, ricordo che quel giorno al museo avevo preso molti appunti, per la maggior parte domande, volevo capire capire capire. Davanti a quella figura antropomorfa, materica, pesante eppure così allungata verso l’alto, la curiosità scolastica aveva smesso di galoppare. C’era qualcosa di così evidente, che ogni domanda sembrava superflua, se non stupida; mi ero detta: se i Greci avevano avuto i kuroi, per forza per noi doveva essere Giacometti.

Alberto Giacometti, L’Homme qui marche, ca.1961

Una delle cose rimarcabili di Ritratto Finale (tralasciando la personificazione, che interpretazione pare riduttivo, di Geoffrey Rush, ça va san dir), è una insistere, quasi claustrofobico, all’interno dell’atelier di Alberto Giacometti, perfettamente ricostruito. Ambientato nella Parigi del 1964, due anni prima della morte dell’artista, il film-documentario, o direi, documentario romanzato, diretto da Stanley Tucci (sì, proprio lui, il caratterista più versatile di Hollywood) si basa sulla biografia Un ritratto di Giacometti di James Lord; della piattezza del libro rimangono alcuni tratti (soprattutto quelli facciali di Armie Hammer), tuttavia il film a sprazzi riesce a renderci qualche immagine di uno degli artisti più significativi della seconda metà del secolo scorso. A partire dagli scorci di quella casa-studio, di cui la casa è meno che un’appendice, impregnata della polvere del gesso delle sue opere e di fumo di sigaretta, abitata da figure antropomorfe, silenti, in bilico tra l’essere e il non essere.

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Nato a Borgonovo, in Svizzera, nel 1901, Alberto Giacometti era approdato a Parigi nel 1919 per studiare scultura con Émile-Antoine Bourdelle, dopo aver frequentato la scuola d’arte a Ginevra. Fu scovato nel ’28 da Breton e Dalì convinti che, sì sì, quella doveva proprio essere scultura surrealista. La parentesi durò poco, perché se c’è una cosa che interessava Giacometti, quella non era l’immaginazione, semmai l’osservazione. Dalla metà degli anni Trenta inizia a lavorare alle opere che l’hanno poi reso famoso in tutto il mondo e quando lo incontriamo nel 1964 la sua firma è già cifra stilistica (e viceversa). Troviamo un artista ossessionato (posseduto, dirà Beckett), incurante del successo così come dei soldi che ne derivano, preso da chissà quali pensieri mentre modella nervosamente agglomerati di gesso, per poi distruggere quello che ha creato e ricominciare da capo.

 

<< È impossibile finire i ritratti – dice a Lord che gli posa davanti – prima si finivano perché non c’era la fotografia, ora non ha più senso. Ed è impossibile.>> Questo senso di fatalità, ma anche della necessità di non poter far altro che continuare a provare, forse è ciò che di Giacometti mi conquista sempre. Inserite nella tradizione esistenzialista e collocate storicamente alla fine del secondo conflitto mondiale, le sue opere, queste figure allungate, quasi abbozzate, si fanno portavoce di un’umanità assottigliata, alla ricerca di sé stessa, in seguito agli orrori dell’olocausto. Tuttavia, se è possibile fare questo discorso, è proprio per quella loro capacità intrinseca di portare l’astratto nel figurativo e/o il figurativo nell’astratto.

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Osservazione, si diceva prima. Giacometti non cerca di rifare delle forme, di riprodurre delle figure, non c’è il pensiero di un soggetto che precede l’azione dello scolpirlo (o dipingerlo). Giacometti cerca di farci vedere quello che vede lui, come lo vede lui. Impossibile, dice lui. Nelle sue sculture non c’è eccesso, sa che negli esseri umani non ci sono eccessi, perché tutto è funzione (Sartre). Eliminati tutti gli idealismi e le belle speranze, in questi corpi di materia agglomerata attorno a del fil di ferro, c’è invece imperfezione, instabilità, caducità, e continuo riprovare. È impossibile finirle, perché niente rimane immutato, tutto è in continuo cambiamento. In un accenno di movimento Giacometti inserisce la vita tutta, così che diventa (finalmente!) superfluo davanti a una sua opera chiedersi chi rappresenti o cosa significhi: un albero non lo si può spiegare, è, e il senso di come esistiamo in quanto esseri umani è quello che Giacometti riesce a catturare nelle sue figure, per quanto astratte ci possano sembrare. Facendo qualcosa mezzo centimetro più alta di quello che è, ci sono più probabilità di comprendere l’universo che facendo il cielo intero (S. Jossa).

Postilla. Se avessi voluto cominciare al contrario, o farla più breve con L’Homme qui marche avrei detto: è come camminare soli. Camminare soli, un passo dietro l’altro, il femore che si incastra nell’anca, il quadricipite che s’accorcia tira su il ginocchio lo rimette giù il piede tocca terra mentre l’altra gamba si prepara a rifare lo stesso. Funzionalità. Camminare soli, non una camminata baldanzosa, non un’affermazione di indipendenza, non una ricerca di attenzioni, solo il corpo i piedi, ben piantati per terra, guardando verso l’alto. Camminare soli, passare inosservati, senza andare da nessuna parte, consapevoli che non porterà a niente, ma continuare lo stesso.

-Tu hai mai voluto essere un albero? (Ritratto Finale, min. 00:35 ca.)

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