Cosa c'e' nei deserti?
“Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare — come una rana
che gracida il tuo nome — tutto giugno —
ad un pantano in estasi di lei!”
Emily Dickinson (trad. Silvio Raffo)
Se dico “deserto” tu che mi dici.
Se lanciassi la parola “deserto” al parco, a mo’ di giavellotto, tutti i cani dei dintorni la rincorrerebbero a precipizio festoso, ciascuno con la sua taglia la sua personale velocità il suo proprio sventolio d’orecchie: ciascuno di noi la rincorrerebbe e le darebbe il suo intimissimo significato. “Deserto” è parola-contenitore, ed è generosa: ognuno scelga in libertà che cosa metterci dentro.
Ho sempre creduto d’essere un temperamento abitudinario e maternamente attaccato agli oggetti fedeli della mia quotidianità: i biglietti del cinema sbiaditi, le tazze sbeccate, le borse scucite, le penne senza tappo, i maglioni infeltriti. Più infeltriti sono, più mi ci affeziono. La parola “deserto”, semplicemente, mi terrorizza. Niente punti di riferimento, nessun appiglio, nessun alfabeto: non esiste passato e non esiste futuro, che cos’è allora il presente, nulla: si sta, e basta. Eternamente. Si oscilla, ci si culla nell’abbandono, nel derelitto, nel disabitato, e niente muta, e nemmeno vuol mutare, suppongo, se volesse mutare muterebbe…
Poi ho dovuto traslocare – proprio durante la lettura di “Absolutely Nothing”, fatalità canaglia e poetica visto che anche di traslochi si parla – e, traslocando, ho assaporato il proibito piacere di disfarmi delle cose. Ho buttato via di tutto (una parte di me ora urla e stride e graffia le unghie sulle pareti della sua cella), vestiti diari cucchiaini asciugamani, ogni volta che portavo giù i miei preziosi e inutili sacchi di spazzatura provavo un senso di indecifrabile e vertiginosa libertà, un senso di libidinosa liberazione, di primavera rinnovata. Eccolo lì, il mio deserto.
“(…) mescolato al perduto c’è qualcosa che viene restituito, e lo sgomento è inseparabile dalla seduzione”
Ho cominciato a leggere il romanzo on the road di Giorgio Vasta con dolce placidità: è pazzo – ho pensato. Chi deciderebbe mai di partire per gli Stati Uniti alla scoperta dei deserti americani, dei luoghi abbandonati e dimenticati, del nulla disabitato made in U.S.A.? Vai a New York! Vai a San Francisco, baby!
No, lui s’è messo in testa di voler vedere che cos’è l’abbandono. Quell’absolutely nothing addirittura segnalato e con precisione misurato da un cartello stradale (22 miglia). Vuole assistervi e toccarlo con mano, metà san Tommaso metà Jack Kerouac all’italiana, con una curiosità dal retrogusto voyeuristico e un po’ masochista. Si fa accompagnare dall’irrefrenabile Ramak Fazel, professione fotografo, e da Silva, editor e fotografa – i tre assomigliano rispettivamente ad Arthur Dent, Ford Prefect e Trillian della “Guida galattica per autostoppisti”: sperduto e sognatore il primo, carismatico e zelante il secondo, pragmatica e razionale àncora di salvezza la terza – e dal lettore che, solleticato dall’empatia immediata per lo scrittore e ammaliato dalla morbidezza della sua prosa, si aggrega ai viaggiatori senza indugio (son pazzi, assecondiamoli).
Vasta è un narratore nudo, che mostra fin dall’incipit le proprie fragilità, inquietudini e insicurezze. Lo si ama subito, e lo si amerà lungo tutto il tragitto.
Con il dito puntato sulla cartina e gli occhi al romanzo, lentamente ci si immerge nell’avventura, ci si ricopre di polvere e sole, ci si presenta agli strambi personaggi che via via i nostri tre incontrano (ogni nuova conoscenza è un viaggio acuto nell’umano, un ascoltare sincero la storia di ciascuno), ci si meraviglia delle cose conservate dal deserto e dal deserto annientate – dalle più ordinarie alle più improbabili e stravaganti -, e la meraviglia ha preso il sopravvento: il viaggio di un pazzo si trasforma, chilometro dopo chilometro, in un viaggio e basta. Giorgio Vasta sa rendere le cose interessanti.
Interessante è il primo aggettivo che scelgo per qualificare il romanzo. Il secondo? Empatico. Il terzo (parto da diesel ma poi chi mi ferma più!): originale. Ma sì, chi ci vuole andare a New York? Troppi turisti, troppa banalità, troppe serie tv ad inflazionarne la memoria collettiva: tornare in Italia e raccontare d’essere andata per deserti americani mi conferirebbe quell’alone di mistero e spericolatezza che cerco da tutta la vita di ispirare negli altri (senza successo). Il quarto: filosofico. Siamo in un deserto, che vuoi fare? Cosa siamo venuti a fare se non a riflettere, interrogarci, rimuginare? Il quinto, denso (di descrizioni, d’intelligenza, di meraviglia) e ricco nella prosa. Dolce e struggente, significativo per me (è nel deserto del Mojave che Arturo Bandini lancia il suo libro) e per chiunque sia disposto a guardarsi allo specchio e darsi la propria definizione di deserto, e così affrontarlo. Vi spaventa? Vi attira? Vi lascereste divorare dalla meraviglia e dal viaggio? Che cosa aspetta voi, proprio voi, nel deserto?
“Dopo tutti questi giorni di viaggio, dopo tutte le frasi e le foto, dopo i motel e la frutta secca, dopo che le dita hanno seguito traiettorie in scala sulle mappe e la jeep ha percorso miglia reali attraverso i deserti, dopo i risvegli all’alba e i caffè nei bicchieri di carta, dopo centinaia di canzoni trasmesse da emittenti monografiche Sixties Seventies Eighties, adesso che alle sei del pomeriggio del terzultimo giorno di viaggio ce ne andiamo in giro in una briciola di Stati Uniti tra grandi arbusti spinosi, i passi che affondano prima nel secco di valve microscopiche e poi in un intruglio di fango e nematodi, i crani assediati dagli insetti, leggendo versi in compagnia di un antropofago gentile che mangia un frutto eterno, e implorando che dalla macchia prenda forma un barlume di spazio almeno un poco somigliante a quello visto in un film che a questo punto temo di non ricordare neppure troppo bene: adesso, dopo tutto questo, io avverto una delusione nitidissima che però non ha in sé nulla di deludente – nessuna cupezza, nessun impulso incriminatorio -, al contrario è come un’ombra capace di stemperare gli abbagli riportando questo e ogni altro viaggio alle sue proporzioni più umane: una fatica smisurata alla ricerca del miglior inganno possibile e poi la scoperta che le cose sono sempre più elementari e ragionevoli e offuscate e indecifrabili, e non somigliano a niente, e che arrivati in un luogo attratti dal miraggio della finzione ci si ritrova invece immersi nella pulviscolare realtà dei moscerini.”
(Grazie ad Andrea per avermelo consigliato)
Stefania Trombetta
Titolo | Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti
Autore | Giorgio Vasta (con le fotografie di Ramak Fazel)
Casa Editrice | Quodlibet Edizioni
Anno | 2016
Pagine | 291
[…] contadini che così a naso direi provengano da qualche posto lontanissimo da me che immagino sia in un sud assolato e deserto nel quale è vivamente consigliato portarsi nello zaino una borraccia d’acqua minerale e una […]