Re della terra selvaggia

Re della terra selvaggia

Cosa significa la parola “ambiente”? Erroneamente siamo spesso portati a pensare che l’ambiente sia qualcosa di necessariamente naturale, fatto di piante e fiori, e che la salvaguardia di questo altro non sia che la protezione del patrimonio forestale e faunistico. In realtà, però, l’ambiente è il complesso delle condizioni che consentono di vivere e dunque, per estensione, lo spazio (anche sociale) all’interno del quale si vive. Considerare l’ambiente qualcosa di esterno, estraneo, da noi è un grave errore, al quale, però, spesso cediamo.

Le prime immagini di Re della terra selvaggia, fulminante opera prima di Benh Zeitlin, sembrano proprio volerci ricordare questo concetto. Il film si apre su un’abitazione fatiscente, ma perfettamente funzionale e abitata, immersa nel Bayou della Louisiana. Animali, uomini e piante sembrano intersecarsi a formare qualcosa di nuovo, nato dal bilanciamento delle varie componenti. Gli animali da compagnia sono anche il cibo, quando serve; il cassone di un vecchio pick-up è diventato lo scafo di una rudimentale barca a motore, fondamentale per solcare le limacciose anse della Grande Vasca, come viene chiamato questo angolo di mondo. Ovunque accatastati rottami che sembrano crescere come erbacce, in assoluta libertà. In mezzo a questo ambiente alieno vive una comunità ben affiatata e ben integrata con la propria terra e i propri rottami, di cui fa parte anche Hushpuppy, la piccola protagonista del film, filosofa ingenuamente inconsapevole. È lei stessa a spiegarci, a più riprese, come il mondo intero derivi dall’equilibrio armonico di tutte le parti che lo compongono e come la rottura anche della parte più piccola possa far saltare l’intero meccano.

Nel mondo di Hushpuppy la rottura avviene a causa di una malattia che colpisce il padre, di cui lei si ritiene in parte responsabile, in concomitanza con uno straordinario uragano che sommerge l’intera area e crea sconvolgimenti climatici, tanto da provocare il disgelo di antiche creature preistoriche ibernate da millenni nei ghiacci. La vita dovrà necessariamente adattarsi alle nuove condizioni e la piccola Hushpuppy con lei.

Il caratteristico ambiente del Bayou non è nuovo a incursioni cinematografiche, per la ricchezza delle sue suggestioni paesaggistiche e culturali: si pensi a Eve’s Bayou, mediocre film sulla condizione dei neri in Luoisiana, o al più recente La principessa ed il ranocchio, della Disney (e prima ancora Bianca e Bernie…), o a documentari come Hurricane and the Bayou, sull’uragano Katrina. L’ecosistema acquitrinoso descritto da Zeitlin ha, però, la peculiarità di essere interamente immaginario, forse addirittura proveniente da un futuro recente (la Vasca, infatti, è separata dalla Città da un argine di cemento), costruito appositamente per contenere i personaggi che mollemente lo solcano, con la placidità delle anse di un fiume. I vecchi neri dediti all’alcol e al jazz, le barche fatiscenti, le grasse donne armate di fucili, sembrano uscire dalla mente produttiva di Hushpuppy stessa e sembrano appartenere ad un’altra epoca, forse anche ad un altro mondo. Proprio come quella madre, che non ha mai conosciuto, capace di accendere i fornelli con la sua sola bellezza. Un velo lieve di poesia, come solo i bambini sanno fare, ammanta ciarpame e mangrovie, le interseca e offre nuova vita a materiale ormai vecchio.

Le regole di vita, nel Bayou, sono scandite dalla possibilità di pescare, di trovare una bottiglia; papà Wink insegna a sua figlia come sopravvivere, come “diventare uomo” e re di quella terra che è la sua terra. Lady Bathsheeba, perfetta rappresentante della cultura Cajun, narra i principi che reggono il mondo mostrando disegni e tatuaggi sulla sua pelle. Più che le parole, scandite in pochi dialoghi e quasi sempre sentenziose e filosofiche (a tratti anche eccessivamente), sulla limacciosa terra contano i gesti, essi soltanto hanno significato. Papà Wink è stato conquistato dalla madre di Hushpuppy quando questa ha ucciso un alligatore, per poi friggerlo. I cambiamenti dell’ambiente interno diventano, dunque, funzionali ai cambiamenti dell’ambiente interiore dei personaggi: sopravvivere da sola nel Bayou è per Hushpuppy la sfida della bambina che sta diventando adulta, un romanzo di formazione fra emarginati ed alligatori. Solo affrontando i propri demòni, rappresentati dalle creature preistoriche che riemergono dai ghiacci, e dominandoli, la bambina potrà diventare adulta e trovare il proprio posto nel mondo. Per fare questo dovrà incontrare una madre (poco importa alla fine se si tratti o meno della sua) e accettare la morte del padre, dandogli l’estremo saluto ed accendendo la pira funebre.

Il mondo antico ed emarginato rappresentato nel film viene interamente consumato negli sguardi intensi tra Hushpuppy e papà Wink. Non c’è spazio per la tristezza o le lacrime, nel gioco della sopravvivenza: la bambina esprime rabbia, disappunto, contrarietà verso le leggi ineluttabili del mondo, con il broncio che riesce a mettere, con due occhi neri e vivi come tizzoni ardenti. A interpretarla la giovanissima Quvenzhané Wallis, immediatamente (e meritatamente) candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista. A farle da spalla, Dwight Henry, il burbero ma giusto papà Wink, interessato ad insegnare alla figlia come cavarsela nel mondo in cui vive, fino a renderla padrona del suo stesso ambiente. L’esordiente Zeitlin segue i suoi personaggi da vicino, con la telecamera a mano, mai fissa, perfetta per dare un senso complessivo di precarietà. Come spesso accade, però, la regia non è pura formalità tecnica. La telecamera segue i protagonisti adattandosi a loro, diventando più nervosa nelle scene concitate o rallentando in molli pianisequenza quando la vita scorre al ritmo del placido fiume. Non mancano neppure le strizzate d’occhio citazioniste, con chiari richiami al Tenente Dan di Forrest Gump e alla fuga dal manicomio di Qualcuno volò sul nido del cuculo, forse troppo appariscenti ma assolutamente perdonabili, in un esordio di rara potenza lirica.

Sullo sfondo di tutta la vicenda campeggia una sorta di morale ambientalista sulla necessità di mantenere un equilibrio fra le cose e sulla possibilità di sconvolgimenti climatici e ambientali, qualora questo equilibrio non venisse mantenuto. È il forte attaccamento ad una terra e ad una cultura, cioè nell’insieme ad un ambiente (sembra di sentir cantare Woody Guthrie, che pure da quelle terre proveniva, “questa terra è la tua terra”), che funge da collante per il mondo intero. Ancora una volta, però, è una parabola dai profondi riflessi esistenziali: non solo i ghiacciai potrebbero sciogliersi, i mari elevarsi, gli uragani spazzarci via, ma anche il nostro piccolo mondo interno necessita di quell’equilibrio per sopravvivere. Altrimenti siamo preda di smottamenti interiori, di uragani cerebrali, e di quei mostri che spesso facciamo finta di non vedere ma che tutti ci portiamo dentro e con cui tutti conviviamo. Lo sguardo di Hushpuppy, alla fine sereno e risoluto, verso i propri fantasmi, verso la pira di suo padre che si allontana sull’acqua, ci racconta che è riuscita a scrivere un’altra parte della sua storia, “per gli scienziati del futuro”.

Alessandro Pigoni

 

Titolo: Beast of the Southern Wild
Regia: Benh Zeitlin
Anno: 2012
Durata: 91′

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