Pianura a pedali/1 | Improvvisarsi “giraduur” a Vescovato
Nei prossimi sei mesi vi poteremo con noi in esplorazioni della Pianura Padana fatte rigorosamente in bicicletta. Un viaggio che vuole essere un prontuario di ciò che si nasconde dietro la nebbia fitta d’inverno e il granoturco alto d’estate. Approdi in posti piccoli a cui voler bene.
Sono ormai dieci anni che mi aggiro in bici per queste strade di pianura, percorsi più o meno circolari che partono dalla mia casa, si spingono in terre piacentine o quasi bresciane e poi ritornano al punto di origine tra campi, stalle, cavalcavia e fossi, intervallati da cappellette con santi e madonne, mete un tempo di devozione popolare o riti propiziatori agricoli.
Negli anni è cambiato spesso il punto di partenza dei miei itinerari così che il paese dell’infanzia, delle case dei nonni, della mia famiglia e dei giochi nei campetti della Rocca, un tempo residenza estiva dei Gonzaga ora oratorio parrocchiale, è diventato un posto verso cui partire, con un po’ di acqua nello zaino e un po’ di musica nelle orecchie, giù per le ciclabili che da Cremona portano a tanti paesi sperduti nella bassa, collegati da un intrico di strade che solo un autoctono può conoscere ed amare.
Ed è così che un pomeriggio di autunno arrivo con una bici di fortuna al mio paese, Vescovato, 12 chilometri a est di Cremona, piccola Mesopotamia chiusa tra due canali, il Cavo e la Ciria uno dei quali, fuori dal paese in direzione Grontardo, crea addirittura una cascata, o così ho sempre chiamato io quel minuscolo salto d’acqua pieno di detriti e ranina (n.d.r. lenticchia d’acqua).
A Vescovato, come già detto, stavano i Gonzaga, ma non quelli colti e mantovani, piuttosto un ramo di signorotti di campagna senza grandi velleità artistiche e culturali, che qui avevano il loro castello, unica eredità lasciata al paese oltre a un pugno di vie con altisonanti nomi a testimoniare intrecci dinastici: la mia via si chiamava “Giuseppina Meli Lupi Gonzaga benefattrice”, curioso incontro tra la grande storia e la mia piccolissima storia, il diminutivo del mio nome.
C’è in realtà una terza eredità inconsapevole che i Gonzaga hanno lasciato a questo fazzoletto di terra, perseguitato da afa e zanzare d’estate e perso nella nebbia d’inverno: fino al Settecento, Vescovato non è stata soggetta alle leggi del cremonese, diventando quindi luogo di salvezza per malfattori di ogni specie che qui riuscivano a fuggire da arresti e pene; da questa rara concentrazione di furfanti e dalla vocazione per nulla agricola il mio paese ha preso, in tempi lontani, la poco esaltante nomea di “paese di ladri”, terra di gente furba, votata al commercio, alla contrattazione e all’affare.
Qui e in nessun altro posto poteva dunque nascere una figura come quella del “giradùur”, lo straccivendolo che si aggirava per le pianure sulla sua bicicletta, appositamente modificata per trasportare merci di ogni genere da una cascina all’altra e da un paese all’altro, guadagnando da vivere grazie allo scambio tra frutta e verdura, capelli, stracci, pellame, il tutto pesato con una famosa bilancina che, con una tecnica nota solo ai più esperti, falsava il peso secondo necessità.
Amato, nonostante tutto, dagli abitanti delle vicine province, il “vescovatino” diventò presto antonomasia della “persona che può arrivare ovunque con la sua bici”: è frequente qui nei dintorni (ma io l’ho sentita anche da uno sconosciuto signore coi baffi, quindici anni fa, su un noto passo dolomitico) la battuta:
“sono andato… (inserire posto lontanissimo, per esempio sulla luna) e ho trovato un vescovatino!”.
Un altro pezzo di storia segna con forza la toponomastica del paese, come detto questa non era terra agricola ma nel secolo scorso era marcatamente industriale, tanto che un intero rione del paese prende il nome da una fornace (Rione Fornace a cui seguono Rione Castello, che si spiega da sé, Rione Contrada, strettoia maledetta da tutti gli automobilisti dei giorni nostri e infine Rione Punvalt, “ponte alto”, dove stavo io).
Alle fornaci si affiancarono con gli anni le tre maestose Filande (Filanda Generali, Filanda Vecchia e Filanda Nuova) una ancora in piedi con la sua ciminiera in mattoni, una oramai abbattuta e una che ci mostra ancora solo la vecchia portineria. La storia delle filatrici di Vescovato è un avvincente concentrato di riscatto sociale, nonnismo al femminile e iniziazione alla vita adulta di bambine che passavano le loro giornate con le mani immerse nell’acqua bollente, intente a raccogliere bachi e passarli alle più grandi, addette alla filatura e alcune volte alle angherie. La storia di queste filatrici, come per le filande della vicina Piadena o Soresina, è soprattutto un enorme bacino di canti che partono dalla protesta per le condizioni di lavoro e sfociano nelle battute maliziose che meritarono alle donne di filanda l’appellativo di “sfacciate” e “superbe”.
Da questa mescolanza tra il girovagare e il cantare sfacciatamente vengo io, che ancora oggi mi aggiro canticchiando in questo angolino della Pianura Padana su una bici da uomo, con poche o nulle velleità sportive ma per il puro gusto di ammirare il lavorio dei trattori e il passaggio delle stagioni sui campi di grano di Vescovato e le rogge.
Riassumendo:
Da vedere: Niente in particolare…
(ma se proprio siete arrivati dalla statale via Mantova attraversate tutta Ca’ de’ Stefani, la frazione, e percorrete il paese per il lungo passando per la perfida strettoia della contrada, dopo alcuni metri capirete dentro di voi di aver sorpassato un vecchio canale fognario un tempo a cielo aperto, denominato non per nulla “petulèera”, quello è il vero confine del paese, a quel punto proseguite con convinzione e vi troverete in una delle più grandi piazze gonzaghesche del cremonese, oramai modificata in più e più modi. Sotto i portici si trovano ancora le botteghe e soprattutto i bar, da sempre in numero sproporzionato rispetto agli abitanti. E non intendo che sono troppo pochi…)
Da mangiare: Una focaccia fatta con burro e strutto, la “chisòla”. Si dice sia stata inventata dal fornaio Guido che, secondo la leggenda, la impastava quotidianamente usando l’acqua cavata dalla fonte della Rocca.
Da bere: “El mànech”, potete cercarlo in ogni bar anche se è nato al Bar Commercio, sotto i portici. E’ una bevanda dalla ricetta segreta e dalla paternità contesa con i vicini avversari di Pescarolo; si consiglia di non alzarsi di colpo dopo il terzo bicchiere.
Personaggi illustri: Il mai scordato Don Luisito Bianchi, autore del famoso romanzo sulla resistenza “La messa dell’uomo disarmato”, i fratelli Piseri, Adolfo e Rosalinda, autori del libro di poesie dialettali “Ciàceri vescuadìni”, Leonardo Cozzoli, autore del libro “Il gran mare di terra” e Giuseppe Bonisoli, storico locale e autore del libro “Vescovato tra storia e cronaca”.
Ora lasciamo la madrepatria per cercare nuove tappe, patrie adottive disseminate per “la bassa”. Mettete un tabarro e seguitemi.