Balkan road trip/3 – Scream for me Sarajevo
1 – Balkan road trip/1 – I mille strati di Belgrado
2 – Balkan road trip/2 – La follia del Guca Trumpet Festival
3 – Tra Guca e Sarajevo c’è uno dei mille confini dei Balcani, quello tra la Serbia e la Bosnia. C’è Mokra Gora col finto villaggio di Kustendorf (o Drvengrad) appositamente costruito dal regista serbo Kusturica per il suo film “La vita è un miracolo”. Una ricostruzione di legno, turismo e paesaggi di un verde infinito che ti fanno dimenticare il fastidio per l’eccesso di finzione. C’è Visegrad che si risolve nel ponte sulla Drina, forse il più imponente dell’Europa orientale. Ci sono i calamari squisiti che si mangiano come inspiegabile piatto tipico nel ristorante dietro il ponte. C’è un signore con il volto rigato dal sole che vende il suo miele millefiori lungo la statale. C’è il panificio in mezzo al nulla, una piccola pekara, con al bancone una ragazza con i tratti da bambina che vende un burek squisito per pochi centesimi di euro.
Ci sono un libro e una cartina della città sul cruscotto. La cartina è stata strappata dalla guida, è sgualcita, con i contorni scuriti dal blu dei jeans che è trapassato alla carta, fondamentale per orientarsi in città alla vecchia maniera, qui dove il roaming internazionale non arriva. E quella cartina la ristringo tra le mani adesso, due mesi dopo, a Roma, mentre ripenso allo shock emotivo che mi ha lasciato Sarajevo. Il libro, invece, è un romanzo di Alessandro Bertante: “Gli ultimi ragazzi del secolo”. Pagine veloci divorate prima di partire, un racconto vero di un viaggio come il mio, di ragazzi come me, in un tempo che non abbiamo mai finito di capire, quello degli anni Novanta, della guerra che ha rischiato di cancellare i Balcani. Le parole di questo libro sono state il legame forte tra il passato e il presente che ho avvertito per tutto il tempo in città. Il flashback che si apriva chiudendo gli occhi di fronte al segno di una pallottola in un muro, come per tenerne impressa l’immagine, per farla riverberare nella mente.
Sarajevo è costruita in una conca. Intorno ci sono le grandi montagne che abbiamo appena attraversato e da cui scende un’aria gelida che ha allontanato i temporali ma che ci coglie completamente impreparati. Sono le 7 di sera di un Agosto qualunque e la città brulica di gente. Sembra un formicaio. Sembra che tutta la popolazione si sia riversata in strada. E’ la folla del Sarajevo Film Festival. E sembra di essere capitati in una sorta di Hollywood balcanica. Gente agghindata a festa, guardie del corpo, struscio sui marciapiedi, auto di lusso nel traffico bloccato da vecchie Fiat 127 e Jugo che emettono fumi dal filtraggio assai dubbio. Poi ci sono sempre quei maledetti buchi nel muro. Ed è con lo stesso ruolo di quei fori di proiettile mai stuccati che campeggia nel programma del festival un documentario che vale e spiega tutta la permanenza qui: SCREAM FOR ME SARAJEVO (2016). Un film, prima che un doc, che racconta l’assedio del 1992-95. Un film sulla scena musicale della capitale bosniaca del tempo che ha al centro un concerto tenuto nella BKC music hall il 14 Dicembre 1994. Un film sulle persone che hanno rischiato la vita per esibirsi e su quelli che l’hanno rischiata per ascoltarli. E’ un film sulla resistenza ed è una chiave di lettura fondamentale per capire l’odierna diffidenza che resta.
“Dicono che nei Balcani i secoli non si succedono uno dietro l’altro ma coesistono in un flusso senza interruzione. Fra queste montagne resistono maledizioni eterne, conflitti mai risolti, racconti ancestrali”
Alessandro Bertante, “Gli ultimi ragazzi del secolo”.
Ed è proprio così. Perché è così che appare Sarajevo oggi, ancora più di Belgrado. Se negli anni Novanta ha rischiato di essere cancellata dalla faccia della terra, oggi è una città vitale, internazionale, qua e là inspiegabilmente occidentale.
Il giorno bisogna cavalcarlo iniziando a camminare nei vicoli pedonali della città vecchia. Bascarsija. E’ l’antico quartiere turco e infatti non ha niente di diverso dal mercato di Gaziantep. Ci sono le moschee, i laboratori del rame, le gioiellerie e i piccoli ristoranti – caffè. Ma, soprattutto, c’è l’insieme che è il simbolo stesso della natura di Sarajevo: nel giro di due isolati, infatti, si trova la grande moschea Gazi Husrevbey, la cattedrale ortodossa e la cattedrale cattolica. Poco lontano da lì, poi, puoi immergerti nell’orripilante ma paradossalmente affascinante piazza dei piccioni. Nomen omen. Il fascino della piazza, di fatto, è nella sua via di fuga: il vicolo dei calderai che, a sua volta, conduce all’ennesima moschea. Nel vicolo e nelle zone retrostanti la piazza puoi mangiare quasi ovunque senza essere mai deluso.
Al calar del sole dai minareti delle decine di moschee di Sarajevo si alza il canto del muezzin. E’ l’ora della preghiera. Va ascoltata salendo in cima al cimitero dell’assedio. Una distesa infinita di lapidi bianche che porta a una terrazza panoramica che domina la città. Con i colori più saturi. Col vento gelido che asciuga la pelle e porta in alto l’odore di carne grigliata dal vicolo dei calderai.
Poi bisogna scendere di nuovo e farsi trasportare nel vortice brulicante delle vie del centro per poi rifugiarsi dentro un locale dalle esperienze surreali: il Zlatna Ribica, detto anche Golden Fish. Un luogo eccentrico con i menù nascosti in vecchi libri appesi, le cameriere vestite alla bohémienne, un pesce d’oro dentro una boccia e il bagno che va visitato perché fa veramente scoppiare a ridere. Così bello che svelarvelo sarebbe un peccato.
La fatica del giorno va scaricata qui, con una rakija dietro l’altra (la grappa locale). Dalla ciliegia alla noce. Dal miele alla pera.
E – ancora – Sarajevo è il luogo delle memorie. Non si può non andare al museo del 1992 – 95 e al museo del Tunnel. Perché il suono di quella guerra è stato il primo orrore che ci hanno raccontato quando eravamo piccoli. Sarajevo è l’ossimoro delle feste lungo la strada, sui marciapiedi dove sono stati mantenuti i segni delle bombe a grappolo. Le chiamano “le rose” per la loro forma che è stata riempita di vernice rossa.
Sarajevo la capisci solo così. Sfiorando con le dita i muri crivellati di colpi. Indugiando nei solchi e alzando lo sguardo alla collina lassù, quella bianca di lapidi marmoree. Nuove. Solo pochi anni fa questa città era una trappola per topi. Dai monti sparavano i cecchini. Per le strade si moriva nella Sniper Street, altra esperienza surreale da percorrere.
Ora su quella collina riposano i 10500 morti di quella guerra. Una distesa che è il “memento mori” del fallimento degli odi etnici, religiosi e politici.
Sarajevo è una lezione continua.
4 – Continua…
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