Borrowed Time, di Andrew Coats e Lou Hamou-Lhadj
I cartoni animati non sono cose da bambini. L’ultimo decennio lo ha più volte ribadito, ricordando che l’animazione è solo un mezzo (più) libero di fare cinema (di quella libertà che Hollywood non sa più ottenere). È sufficiente ricordare alcuni titoli Pixar, come Inside Out o il mai troppo acclamato Wall-E, ma anche titoli minori come Rango di Verbinski, per rimanere legati al panorama americano.
Borrowed Time di Lou Hamou-Lhadj e Andrew Coats, già membri attivi proprio di casa Pixar, non fa che ribadire il concetto. Lo stile Pixar è evidente, non solo nel tratto e nel disegno, ma nella capacità straordinaria di trasmettere un’intera vita in una singola espressione, di creare un contesto credibile in una inquadratura. La storia è sufficientemente cruda e carica di pathos, sebbene lo scenario così come gli eventi non possano non ricordare Il Re Leone e la medesima sensazione di infanzia distrutta e anni di analisi. Forse, però, questo rimando non fa che accentuare il dramma (a tratti quasi eccessivo), riportando in auge vecchie ferite, come i ricordi del cowboy protagonista.
Molto riuscito l’espediente del ticchettio dell’orologio sul finale, che salva lo stesso da un eccesso di buonismo. È il ricongiungimento del tempo e dei tempi, interiori ed esterni, reso possibile solo dall’accettazione del tempo stesso, dopo il superamento di un senso di colpa inutile e dannoso, che costringe a rivivere tempo passato, senza possibilità di trovare in questo un luce per il futuro.
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