Tiflon Mumtasun * | La vita davanti a sé, di Romain Gary
È difficile scrivere di un libro che si è particolarmente amato. Il timore di non riuscire a comunicare la grande bellezza di cui si è goduto leggendolo si mischia a quello di sembrare ridondanti, di eccedere, di strafare, e di lasciare poi il lettore incuriosito con la spiacevole sensazione del “Tutto qui?”.
È con lo spirito dell’equilibrista e le doti di chi cammina su un filo di lana che mi accingo dunque a parlare de La vita davanti a sé, romanzo che è riuscito davvero ad arrivare là dove altri libri non arrivano.
La storia è raccontata in prima persona da Mohammed, ragazzino arabo della banlieu di Belleville, a Parigi, nato malissimo da madre prostituta e padre ignoto e accudito assieme ad altri figli “non necessari” dalla vecchia e grassa Madame Rosa, ex donna di strada ora in pensione.
Questi sono i punti cardinali dell’intero racconto, che per il resto si muove sul terreno sconnesso dell’incertezza: Momo crede di avere un’età e invece ne ha un’altra, è convinto che suo padre sia ignoto a tutti e invece qualcuno lo conosce – forse, ha un futuro fragile quanto la salute dell’anziana donna ebrea che bada a lui. I suoi occhi di bambino di strada che osservano la realtà ci restituiscono solo gli episodi, i dettagli di chi è troppo piccolo per avere una visione d’insieme; questi frammenti sono però affilatissimi e luccicanti, contengono ingenuità, spontaneità, grazia e dolcezza in una quantità che ci aspetteremmo dai suoi coetanei di Saint-Germain-des-Prés.
La sua è una vita che farebbe orrore a molti di noi; e anche Momo si rende conto dell’estrema durezza della sua quotidianità. Nondimeno, non si lascia sopraffare dallo sconforto, e soprattutto non insegue il mito dell’esistenza felice: parlando di eroina, bestia letale di cui già conosce l’esistenza, dice: “I ragazzi che si bucano diventano tutti abituati alla felicità e questa è una cosa che non perdona, dato che la felicità è nota per la sua scarsità. Per bucarsi, bisogna veramente cercare di essere felici e solo i re dei cretini possono avere delle idee simili. […] Ma io non ci tengo tanto a essere felice, preferisco ancora la vita. La felicità è una bella schifezza e una carogna e bisognerebbe insegnarle a vivere. Non siamo della stessa razza, io e lei, e a me non me ne frega niente”.
Il complesso di personaggi improbabili con i quali Momo ha a che fare rappresenta per lui un insieme di legami affettivi, seppure il ragazzino riconosca lucidamente i loro limiti: Madame Rosa lo riscalda di amore materno, anche se il suo corpo va in pezzi – “Be’, io nella vita non ho visto niente e non ho il diritto di dire cosa è spaventoso e cosa non lo è, ma vi giuro che Madame Rosa nuda, con gli stivali di cuoio e le mutande nere di pizzo intorno al collo, perché aveva sbagliato parte, e delle tette così, tutte appoggiate sulla pancia, supera l’immaginazione, vi giuro che è una cosa che non si vede da nessuna parte, ammesso che esista”; il signor Hamil, vetusto e venerabile venditore di tappeti “che ha begli occhi che dispensano del bene tutto intorno”, gli insegna a leggere e a fare domande, e non importa se ogni tanto si confonde e lo chiama Victor come Victor Hugo, letto in gioventù; Madame Lola, un ex campione di boxe con le braccia muscolose e tatuate che batte al Bois de Boulogne come travestito, lo rassicura con l’aiuto e la solidarietà sempre più necessari quanto più avanzano le malattie della vecchia ebrea.
Il linguaggio del libro è duro, forte, tagliente: riflette il mondo che descrive, “la vita schifa” delle banlieu parigine. C’è tuttavia una leggerezza di fondo, quasi una infantile spensieratezza – a tratti, che non lascia spazio alcuno alla possibilità di distrarsi, saltare le pagine, provare moti di repulsione e abbandonare anche solo temporaneamente la lettura.
“È un romanzo toccato dalla grazia”, ha scritto Stenio Solinas, e credo non vi possa essere definizione migliore. Di più: leggendolo, ho intuito cosa mi avesse catturato, affascinato ed in parte impaurito di quel piccolo arabo: l’energia, che è speranza mista a forza. Quella incredibile capacità di resistenza alla vita, di adattamento, di attaccamento nonostante tutto che l’autore, Romain Gary, deve probabilmente aver visto negli occhi e nei nervi degli immigrati che negli anni settanta cominciavano veramente a popolare le periferie di Parigi. Quando si discute di immigrazione, oggi, queste pagine possono essere un buon punto di partenza.
Leggetelo se potete, davvero. Non c’è altro da aggiungere.
Ginevra Ripa
* Tiflon Mumtasun in arabo significa “ragazzo coraggioso” o “bambino coraggioso”
Titolo | La vita davanti a sé
Autore | Romain Gary
Editore | NeriPozza
Anno | I edizione 2005
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