Dubrovnik, d’ostriche e perle
Guscio: sostantivo maschile a indicare l’involucro – per lo più duro – che avvolge e protegge i semi e i frutti di alcune piante, le uova e il corpo di certi animali.
C’è una torre bassa e rotonda, di vedetta solo una bandiera. Rocce, mare, ancora rocce. Definisco i confini: là dove punta il mio dito, dove mira l’occhio meccanico della mia fotocamera, c’è Venezia. Dietro le mie spalle, oltre il promontorio brullo che mi ha accolto all’atterraggio, c’è Zagabria, poi Budapest e Kiev e Mosca e terre, altre terre, sempre terre, senza blu. Ma se invece iniziassi a correre verso sud, allora vedrei mille volti diversi a riempire spazi stretti con le loro scomode convivenze, poi la Grecia, il Mediterraneo ancestrale.
Ruvida e chiusa, come una conchiglia ancora viva, così mi pare Dubrovnik a questo crocevia.
Al di qua delle sue mura diffidenti c’è la regolarità del nostro moderno, fatto di bus e taxi e chiacchere al bar e sorrisi forzati pronti allo scatto. Temporeggio davanti alle porte giganti della città vecchia, mi attardo per un caffè; il pane col miele è mio complice. Due morsi dolcissimi e la mia fame, invece di svanire, si amplifica: mandorle, noci, arance, che rompo, schiaccio, spello, sbuccio. Devo arrivare al succo.
Il traffico di questo confine pietroso m’interessa, ma sono qui per oltrepassarlo.
Per estensione, denominazione di oggetti, strutture e simili aventi qualche analogia di somiglianza o di funzione con i gusci naturali.
Il riverbero del sole di luglio è accecante: risplende a terra sullo Stradun bianco, consumato da secoli di cammino. Tutto è lucente intorno. Non c’è ombra, non c’è verde, solo chiese e portici e ombrelloni. Le finestre, le porte, i gradini sono bianchi, i sorrisi di benvenuto pure. Tra una piazzetta e l’altra salgono scalinate striminzite e soltanto per questo più oscure. In cima, altre chiese ancora ruderi: è il barocco dell’antica Ragusa dalmata, cancellato e redivivo, ricercato o involontario. M’insinuo tra le mura ed è tutto un saliscendi: ho già dimenticato le coordinate del fuori, i punti cardinali sulla mappa, la geografia di questa mia caccia al tesoro. Non servono più.
Seguo gli stormi di turisti che le navi da crociera riversano sulle spiagge e nel piccolo porto di Dubrovnik. Mi riporteranno al mare, penso. E invece sono i profumi ai tavolini sotto gli ombrelloni a ricordarmi che in mezzo a tutto quel bianco prima o poi spunterà il blu.
Vongole che sembrano piccole caramelle calcaree, succose all’interno non meno delle cozze nere e allungate come occhi orientali, il muscolo pure latteo oltre a tutta quella pietra. Cedo ai doni dell’Adriatico: Buzara, crostacei spadellati con aglio, olio, prezzemolo e vino; Salada ot hobotnice, polpo in insalata con pomodoro, cipolla rossa, aceto, olio, olive nere; Brujet, zuppa di pescetti di paranza; Bakala na bijelo, merluzzo reidratato con patate e cipollotti. Non ho bisogno di domandare: il mare è là, l’accesso al porto non può che essere al centro della loggia del palazzo del Rettore, dove si commerciavano le ricchezze del mare per mare. È rispettato, venerato, è ancora dominus, elargitore di beni vitali. Di questo mare Dubrovnik è il frutto più prezioso.
In senso figurato, il guscio è luogo dove si è nati e vissuti in allusione a una vita dai confini piuttosto ristretti.
Italiani, serbi, austriaci, turchi hanno lottato per accaparrarsi questo minuscolo segmento di costa puntellato di isole ancora selvagge. L’imponenza della fortificazione tradisce l’appetibilità della conquista. Seduta sugli scogli di una di queste spiagge non posso non pensarci, mentre la crosta dorata di un Burek lascia fuoriuscire l’aroma di carne speziata e dolciastra, eredità delle influenze ottomane.
La pasta è croccante, ricorda il baklava, e il formaggio cremoso è pungente al palato proprio come la feta. È talmente perfetta da sembrare forzata, questa simmetria tra prelibatezze di terra e di mare: mentre la povertà aspra delle montagne è incartocciata nei croccanti scrigni di sfoglia, lo sfarzo marino più languido è racchiuso tra le valve delle ostriche.
Non può essere un caso se sono proprio loro a fare da regine sulle tavole della Perla dell’Adriatico, se sono l’incontro costante sia nei locali più chic che nelle taverne turistiche d’ispirazione piratesca. Non una alla volta, ma in ampi vassoi da condividere, senza condimenti né accompagnamenti, ad eccezione del limone translucido a impreziosirle, le ostriche vanno gustate rigorosamente con lo sguardo rivolto al mare. Dalle mura ancora roventi anche dopo il tramonto si seguono le luci delle barche, dietro i profili irregolari delle isole buie: da lì provengono le ostriche, da dove pure veniva ogni volta il pericolo straniero; mentre di qua, nella città vecchia, si esercitava l’arte della resistenza nell’attesa.
Il gusto di questi frutti è quello della difesa, il loro fascino l’ermetismo, il richiamo la perla lucente che difficilmente regalano. Non ha ceduto alle bombe Dubrovnik, non alle crisi del commercio, non alle dittature, e nemmeno al turismo che adesso la pervade. Forse, perché dalle ostriche ha imparato a concedersi senza rompere il guscio.
In letteratura, ad esempio, con uso metaforico: “Mi è parso di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi tra loro per resistere alle tempeste della vita… Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che stacca il guscio dallo scoglio.” (G.Verga)
Alcuni indirizzi che piacciono a Trippa:
Kavana Dubrava 1836, bar ristorante alle porte d’ingresso della città vecchia, noto per i tavoli all’aperto, la splendida vista, l’ottima colazione.
Defne, ristorante dall’apparenza turistica ma dalla grande autenticità nei sapori. L’insalata di polpo è un must.
Pakarnica Lapad, piccolo forno con vastissima scelta di burek, dolci con frutta secca e pani tradizionali, perfetti per lo spuntino in spiaggia.
360° restaurant & lounge, ambiente internazionale, panorama mozzafiato dalle mura che affacciano sul porto, cucina ricercata.
Mala Buza bar, locale unico per la posizione: bisogna arrampicarsi sulla scogliera a strapiombo sul mare, ma se non soffrite di vertigini e volete godervi un cocktail con vista sull’isola di Lokrum, questo è il posto perfetto.
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