City of the Sun| Summerchild

City of the Sun| Summerchild

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A tutto volume e nel primo sudore nella vostra cameretta. Il sole (anche utopico) sprofonda dolorosamente oltre i vetri, fuori, in strada.

Ho scelto Summerchild fra tutti i brani di un trio acustico newyorkese e postrock, che piace da parlarne a una velocità di 867749938 fonemi/secondo, perché incarna l’atmosfera malinconica dell’estate con puntualità evocativa e imprevedibilmente mediterranea.

E l’estate, nella sua inconsistenza (inconcludenza?) è la stagione che meglio esprime una dimensione anatomoriflessiva familiare, in un elettrizzante panorama di incomprensioni e bollicine: la delicatezza estatica di una carezza sulle corde della chitarra acustica di John Pita richiama certe cattive abitudini e velenose tendenze all’autosabotaggio.


“Vuoi che questo forte, ruggente e possente guerriero costruisca una fortezza dove puoi rifugiarti, in modo che tu non debba mai aver paura, non debba mai sentiti sola, non debba sentirti esclusa…è questo che cerchi, vero?

Non lo troverai mai.


(Ultimo Tango a Parigi, superalcolici alla pesca e peccati di gioventù)

City of the  Sun è un trio catartico, potente e malinconicamente crepuscolare quanto un torbido momento di parapiglia, partorito da un esperimento sociale e un’occasione carina che prende il nome di Sofar Sound, e di cui prepariamoci a sentir parlare anche qua (e a 867749938 entusiastici fonemi/secondo ).

Trattasi, per dare una vaga idea, del concerto a cui vorresti essere invitata anche se ancora non lo sai, o che vorresti tanto inventare nel tuo giardino.

Summerchild è un brano di una malinconia ruggente dalle insospettabili e sanguinanti tonalità di un flamenco. Rosso. Rosso intenso.

L’attacco è preparativo e propiziatorio, pieno del pathos da amorazzo estivo, di quelli che ti lasciano a fissare l’orizzonte, la bocca asciutta e con al massimo il vago sentore di un po’ di amaro in fondo, all’altezza proibitiva delle papille gustative. Per ricordare -o dimenticare- che c’è sempre qualcosa di sbagliato e di corrotto negli amori folli, nell’ineluttabilità di certe sfortunate affinità elettive da romanzo di Marquez.

Summerchild dell’ineffabile, impalpabile sfilata dello struscio, esprime tutte le fasi con altrettanta spontaneità e disincanto. Il primo drammatico gioco di sguardi e la tensione dell’ormone catalizzato nelle cruente serate intiepidite, quando l’occhio non è ancora preparato all’epidermide che torna a respirare nelle ore morbide di giugno.

Per sottolineare che il flirt è questione di attitudine, noia o disamore.

Rimane contemporaneamente, sul fondo, un ritmo concentrato e lirico da situazione potente ma appena accennata, potenziale in un’atmosfera intensa ma a malapena definita: una festa, una sfilata, un grande raduno di persone sconosciute, unite dalla musica in un ambiente neutro e disimpegnato.

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 Summerchild della velocità degli incontri estivi, ha tutta la tensione di una chitarra acustica isterica e iperattiva, ma al contempo puntuale, delicata.  Da mezzi sorrisi e pause dense che basta un gesto inavvertitamente maldestro a sciupare, e la percussione intensa, brodo di una passione ineffabile al ritmo di gipsy jazz e indie rock, accompagnate al contrasto di accordi di una semplicità inaspettatamente latina. Accordi lenti, sensuali. Da far venire a galla che per certe cose non servono le parole, la koinè è un linguaggio universale.

front4

La calma, il controllo, sono solo manifestazioni apparenti e servono a mascherare (non contenere) una carica energetica dionisiaca e quasi brutale, distruttiva, in quella che è l’interpretazione ambivalente della musica di un trio che alterna le enormi distensioni di Everything is Happening, The Clouds Have Parted, I’M Free ed Explosions, a musica malinconica e dolorosamente in tensione. Sofferente come l’espressione più combattuta di una giovinezza intensa, ma frivola, piena di perché e bisogno di parlare.

Servono persone brillanti, speciali e diverse perché certi bollori, certe perle e accordi tesi vengano colti e intonati, per risalire il fondo e scoppiare, finalmente, in superficie.

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