Raymond Carver | Una cosa piccola ma buona
“Una cosa è sicura: i racconti di questa raccolta saranno più pieni di quelli dei libri precedenti. E questa, Cristo santo, è una cosa buona. Non sono lo stesso scrittore di prima. Però so che tra questi 14 o 15 racconti che ti darò ce ne sono alcuni che ti faranno arricciare il naso, che non coincideranno con l’idea che la gente si è fatta di come deve essere un racconto di Carver – e per gente intendo te, me, i lettori in genere, i critici. Comunque, io non sono loro, non sono noi, sono io. Può darsi che alcuni di questi racconti non si adattino facilmente a starsene allineati in fila con gli altri, è inevitabile. Però, Gordon, giuro su Dio e tanto vale che te lo dica subito, non posso subire l’amputazione e il trapianto che in un modo o nell’altro servirebbero a farli entrare nella scatola, di modo che il coperchio chiuda bene.”
Quando Raymond Carver scriveva queste parole a Gordon Lish, il suo editor, dichiarava nero su bianco guerra all’etichetta del minimalismo. Una piccola rivoluzione in rifiuto del riduzionismo. Cattedrale, infatti, è il manifesto di queste ed altre “rotture” e tra tutti i racconti che contiene Una cosa piccola ma buona è il più ribelle.
È la storia di un bambino che viene investito da un’auto nel giorno del suo compleanno. È la storia di due genitori spaesati davanti al proprio dolore. Ed è anche la storia di un pasticcere che lavora sedici ore al giorno per preparare torte di compleanno.
“La torta che aveva scelto era decorata con un’astronave su una rampa di lancio sotto una pioggia di stelle bianche, e un pianeta di glassa rossa dall’altra parte. Scotty, il nome del bambino, sarebbe stato scritto in lettere verdi sotto il pianeta.” Sarebbe stata pronta per il lunedi mattina, quando Ann sarebbe passata a ritirarla giusto in tempo per la festa di Scotty, se solo la vita non fosse stata così irragionevole. Nessuna festa attendeva Scotty: solo dottori, analisi, ore di attesa in ospedale. E alla fine, per la mamma e il papà di Scotty, più niente da attendere. Se non delle strane telefonate mute, in piena notte. Ansia, paura, rabbia. Ad infierire sul loro lutto era arrivata la beffa di uno sconosciuto. Si limitava a ripetere il nome di Scotty, “vi siete dimenticati di Scotty”, poi rumori meccanici. Silenzio.
Ben lontano dalle norme di quella letteratura minimalista nei cui racconti non accade pressappoco nulla, qui gli eventi sono macroscopici, enormi, ingombranti. La scrittura osserva tutto da vicino, l’occhio rimane puntato sui dettagli, la messa a fuoco è in zoom sull’apparenza insignificante delle cose, che invece sono varchi verso mondi inesplorati, verso le storie dei personaggi che nell’arte di Carver sarebbe meglio chiamare persone. La vita raccontata così com’è è, sta sulle pagine di questo racconto in tutta la sua netta, chiara, spietata ineluttabilità.
Eppure, Una cosa piccola ma buona è soprattutto una magistrale storia di perdono e vicinanza. Sì, perché proprio quando non c’è più nessuna speranza ad offrire vie di fuga, allora non rimane che rompere le barriere, i vuoti insormontabili tra gli esseri umani.
Quando la frustrazione dei genitori di Scotty è al culmine, Ann capisce che a torturali nel pieno di quella tragedia familiare è il pasticcere. Il grosso, vecchio e burbero pasticcere a cui aveva chiesto pianeti di glassa. “Sono soltanto un pasticcere” si difende lui dall’ira della donna. “Soltanto”. Il “tanto” è la quantità ad aumentare la pochezza del “solo”, a enfatizzare la desolazione del “nient’altro” – che almeno, però, le variabili dell’alterità le considera. “Soltanto” è proprio l’avverbio dell’identità definitiva, senza spazi di redenzione. Sono uguali, adesso, Ann e il pasticcere. Sono “soltanto” loro, faccia a faccia. Ma come possono toccarsi, incontrarsi, le loro solitudini?
“- Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa -, disse il pasticcere. – Spero vogliate assaggiare i miei panini caldi. Dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo. (…) Mangiate, prendete tutti quelli che volete. Ci sono tutti i panini del mondo qui. – ”
Risuona, prendete e mangiatene tutti. Ed ecco di colpo l’essenziale. Non minimale, non “soltanto”. Ma essenziale. Il pane è il simbolo di quella rivoluzione gigantesca, di quella rottura benefica che si chiama condivisione. Ora che sono uguali, i genitori di Scotty e il pasticcere, parlano. E si ascoltano. Tirano due sedie fino al tavolaccio da cui cadono ricevute, calcolatrice ed elenco telefonico per fare posto a due tazze di caffè caldo con panna e zucchero, e una teglia intera di panini alla cannella appena sfornati. E il pasticcere adesso parla, non per scusarsi, ma per raccontarsi, per raccontare delle candeline degli altri sulle torte degli altri, per i compleanni, gli anniversari, i matrimoni. Di cui a lui rimaneva soltanto la glassa sulle dita. Eppure era un pasticcere, il suo era un mestiere di cui c’era bisogno.
“ – Ecco, sentite che profumo, – disse il pasticcere, spezzando una pagnotta di pane scuro. – Questo pane è un po’ pesante ma molto nutriente. – Ann e Howard lo odorarono, poi lui glielo fece assaggiare. Sapeva di melassa e cereali integrali. Continuarono ad ascoltarlo. Mangiarono tutto quello che poterono. Inghiottirono quel pane scuro. Sotto le batterie di luci fluorescenti sembrava giorno. Rimasero lì a parlare fino all’alba, un chiarore pallido e intenso che entrava dalle vetrine, senza che venisse loro in mente di andarsene.
American cinnamon bread | Ricetta facile
Quando penso a una bakery, la prima cosa che mi viene in mente è il profumo. Quell’odore di farina e burro mischiati in una nuvola calda attraverso cui posso solo intravedere piccoli panini lucidi. Siamo molto lontani dalle complicate raffinatezze francesi e dagli sfarzi delle golosità nostrane. Oltreoceano la pasticceria è un’altra cosa. Esagerata, sì, coerentemente col tutto a stelle e strisce, ma in qualche modo primitiva. La consolazione che porta una fetta di pie o un donut è diretta, infantile. Niente sensualità, niente chiasso, artifici e sorprese, solo un grosso abbraccio, tipo quello stritolante della mamma che è felice di vederti. E diciamocelo, delle volte è davvero indispensabile.
- 400 gr di farina
- 60 gr di zucchero
- 25 gr di lievito di birra fresco
- 10 gr di sale
- 200 ml di latte
- 80 gr di burro
- Cannella in polvere
- Altri 50 gr di burro
- Altri 50 gr di zucchero
- Granella di zucchero a decorare
La preparazione di questi piccoli panini simpatici come guance grassottelle da pizzicare è infantile quanto il mondo che rievoca. Difficoltà, quindi, pari a zero.
Mettete in una ciotola capiente la farina, lo zucchero e il sale. Aggiungete poi il burro che avrete fatto fondere e raffreddare e il lievito sciolto nel latte tiepido. Mescolate e impastate. La pallozza bianca e liscia ottenuta va lavorata un po’ e poi sistemata al caldo (max 40 gradi) per farla lievitare per bene. Intanto, sciogliete altro burro (eh, mica si scherza qua), aggiungeteci lo zucchero e la cannella in polvere, abbondante. La consistenza sarà quella di una pasta granulosa e viscosa.
Passate un paio d’ore, potete riprendere l’impasto, lavorarlo ancora un po’ e stenderlo in forma rettangolare. Cospargetelo della pasta di burro, zucchero e cannella. A questo punto potete sia arrotolarlo in un unico megasuperpane alla cannella (e quindi infornarlo nello stampo da plumcake), sia tagliarlo a strisce che poi arrotolerete a farne girelle (in quel caso, il risultato sarà però più simile ai Korvapuusti finlandesi), sia -ed è l’opzione che preferisco- tagliare dei quadrati ripiegando gli angoli verso il centro oppure lungo i lati per due volte.
Insomma, comunque decidiate di chiuderli, il risultato dopo una ventina di minuti in forno a 180 gradi sarà talmente spettacolare che vi scenderà una lacrima di orgoglio.
Unica controindicazione: profumerete di burro e cannella per giorni e sarà come essersi trasformati in una calamita per bambini, cani e soggetti con deficit affettivo. Vi conviene sistemarvi davanti casa e offrire abbracci gratis.
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[…] caffè americano (iddio mi perdoni) e diavolerie che spacciano per cappuccini. Poi piparkakku e korvapuusti, alias biscotti allo zenzero e rotolini di cannella. Buoni da chiedere la cittadinanza. Inebriata […]