La mia grossa grassa Pasqua anti-vegana
Odo dal web vociferare di piccioni, chef stellati e presunti crimini contro l’umanità. Esco per una birra e vedo locali veg zeppi di gente. Sfoglio riviste, scorro social, prendo caffè al bar ma la sorte è la stessa: vegani a ogni angolo. Dalla ragionevole etica vegetariana, a quanto pare, siamo piombati rapidamente nel mondo dei divieti, dei no a pressoché tutto quello che non è quinoa, al diktat di una moda alimentare spacciata per filosofia eco-friendly.
Sia chiaro, non considero gli allevamenti intensivi un balsamo per le coscienze, anzi, li definirei piuttosto i parchi degli orrori zoologici, l’Aushwitz del bestiame (roba che al confronto la caccia grossa passa per un esercizio d’innocenza). Eppure anche il mangia-rape più incallito ammetterà che la nostra evoluzione di bipedi pensanti non sarebbe stata possibile senza pascoli e pennuti allo spiedo. Cancellare le carni dai menù e quindi dalla tradizione culinaria significa destinare all’oblio una buona fetta del nostro patrimonio culturale.
Basti pensare alla Pasqua: tutto sommato, il passo dall’agnello sacrificale agli arrosticini della Pasquetta è piuttosto breve. Per noi eredi dell’antico Mediterraneo e dintorni, la caccia alle uova su cui tanto batte oggi il marketing dei dolciumi rientra nel “tu-vuò-fa-l’americano way of life”. L’uovo simbolo di rinascita è molto più politically correct del capretto sgozzato per placare l’ira divina, più semplice quindi da adottare nella mentalità W.A.S.P. (white anglo-saxon protestant).
A conferma del mio blaterare, mi viene in mente una commedia del grande schermo di quelle campioni d’incassi che, anche se non sarà un’argomentazione da sfoggio accademico, funziona sempre, cioè ha fatto e fa ancora ridere. E se così è, un motivo ci sarà. Il mio grosso grasso matrimonio greco, scritto e interpretato da Nia Vardalos, mette in scena le problematiche d’integrazione negli USA del melting-pot scegliendo la leggerezza della “love comedy”.
Nia (Toula Portokalos) è la tipica anti-Barbie. Non è bionda ma è molto sveglia, è ambiziosa e allo stesso tempo legata alla famiglia. Tutte cose che le causano non poche difficoltà, specie nel momento in cui rifiuta di sposare un uomo greco e decide invece d’iscriversi all’università. Ma a scatenare un vero e proprio putiferio sotto il tetto dei Portokalos arriva l’ultima goccia: Ian Miller, insegnante di letteratura inglese belloccio e vegetariano. Un po’ come noi italiani, anche i greci sopportano il peso del cliché della mega famiglia matriarcale, che di solito (per completare il quadretto) gestisce un ristorante. Esattamente così è per i Portokalos, esattamente questo – la cucina – sarà il primo terreno d’incontro e scontro tra la “grecità” di Nia e il suo amore per Ian.
Il gioco degli stereotipi ben supporta la trama, che senza risparmiare caricature nemmeno ai WASP di cui sopra, inscena un vero e proprio scontro di civiltà. Guarda caso, proprio la Pasqua viene scelta come occasione per presentare il povero Ian alla famiglia in festa. È ormai un cult la scena in cui il gelo causato dalla pubblica ammissione di vegetarianesimo di Ian viene rotto dalla zia tutta logorrea e hairspray di Toula, che dopo un attimo di sgomento gli assicura “non fa niente, non fa niente…ti faccio l’agnello”. E giù di hoppa! e di risate. A quanto pare, gli ovini per i greci sono pressappoco come il prosciutto per gli spagnoli: non è nemmeno lontanamente immaginabile farne a meno. E io, almeno a Pasqua, sono d’accordo con loro. La tradizione gastronomica è grande abbastanza da contenere differenze etniche, discordanze di pensiero e di gusti, passato e futuro, hamburger veg e “je suis wurstel”. Anzi, il suo più grande potere sta nel riuscire ad armonizzarli.
Anche ne Il mio grosso grasso matrimonio greco, la conciliazione si raggiunge a tavola, o meglio al banchetto delle “nozze miste” tra Toula e Ian: lui accetta grandi abbuffate di agnello, loro – i Portokalos – la sobria cassata offertagli dai suoi genitori borghesi. Non c’è ricetta che non si possa considerare in qualche modo fusion, perché inevitabilmente è unione di qualcosa con qualcos’altro. E questa mi sembra anche una precisissima definizione dell’amore. Dice bene Gus, il cocciuto padre di Toula per il quale ogni parola esistente deriva dal greco, alla fine del film: “Insomma, Miller viene dalla parola greca milo, che significa mela…il nostro cognome Portokalos deriva dalla parola greca portokali, che significa arancia. Dunque stasera abbiamo mela e arancia…Siamo tutti diversi, ma alla fine…siamo tutti frutta!” Per la gioia dei vegani.
Arrosticini greci:
(Dosi per 4 stomaci normodotati che vogliono arrivare integri alla colomba, da moltiplicare in base ad amici e parenti e ai rispettivi stomaci)
- Spalla di agnello macinata 500gr
- Mollica di pane qb
- Uovo 1
- Melanzana nera lunga 1
- Yogurt greco bianco 150 gr
- Aglio 2 spicchi
- Limone 1
- Menta, timo e prezzemolo qb
- Olio evo qb
- Sale qb
- Latte qb
- Paprika dolce o curry o cumino a scelta qb
Per fortuna non c’è bisogno di rispolverare nozioni di catechismo per dare a questa preparazione un’aura di sacralità. Metterà pace in tutti, persino i miscredenti come me (fanno eccezione i “carnofobi”, ovviamente). Soprattutto, è il piatto perfetto per una Pasquetta mitica, perché non solo rende esotiche le scampagnate, ma fa figo anche se siete nel tinello di casa (tanto si sa che il primo filo di fumo del barbecue stuzzica pioggia, grandine, neve e l’uragano Katrina).
I kofta, cioè gli spiedini di agnello greci, seguono lo stesso procedimento delle polpette: impastate la carne con la mollica ammorbidita nel latte e strizzata, l’uovo, il prezzemolo tritato e la scorza di limone grattugiata. Insaporite con sale, un filo d’olio, due spicchi d’aglio tritati e un pizzico di paprika (o quello che vi pare). Schiacciate l’impasto intorno agli spiedini e teneteli pronti per la brace. E ora…il tocco che renderebbe fieri i Portokalos: la salsa allo yogurt. Per prima cosa dovrete aver messo mooolto prima la melanzana intera ad arrostire, l’avrete poi chiusa nell’alluminio o nella pellicola a riposare. Una volta fredda va pelata in modo da poter usare la polpa schiacciata, a cui mischiate lo yogurt, il succo di limone, l’olio, il sale, la menta e le foglie di timo fresco. Una volta arrostiti gli spiedini l’ideale è mangiarli con la salsa e il pane pitta e brindare con un sano “Hoppa!”