Utopia, il non-luogo

Utopia, il non-luogo

Utopia

Tanto per cominciare, utopia è scrivere un editoriale senza passare per spocchiosi tuttologi che ne sanno sempre più di te; eppure ci provo ogni due settimane circa. Utopia è trovare posto a sedere sul tram delle 8 che passa da Porta Romana a Milano; eppure lo cerco ogni mattina. Utopia è atterrare con un volo Ryan Air senza che esploda un applauso incontenibile quando meno te l’aspetti; eppure un po’ ci spero sempre.

Platone si è arrovellato la mente non poco nel tentativo (fin troppo riuscito per noi studenti) di creare un modello ideale di Repubblica, di descrivere un’utopica società senza tempo. Così come l’utopia nascosta tra le note di Debussy rivela il desiderio tacito del compositore di creare un’arte che lasciasse spazio all’immaginazione del fruitore e al suo continuo definirsi. Del resto, utopia è anche aumentare i nostri lettori con un numero che spazia dalla musica classica alla filologia romanza; eppure avrei dovuto imparare qualcosa di marketing in questi anni.

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Si dice che u-topia sia un non-luogo, inteso come qualcosa che non può realizzarsi, che non può avere luogo nel reale, appunto. Questa la definizione da manuale, mentre nella prassi utopia è spesso sinonimo di modello ideale, di sogno oggettivamente poco raggiungibile, ma non per questo privo d’attrazione. De André, in una vecchia intervista televisiva, disse che un uomo senza utopia era come “un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e raziocinio”. E dunque mi chiedo: cosa resta in noi di umano se ci viene tolta la possibilità di aspirare non a ciò che è, ma a ciò che si crede inarrivabile?

Utopia, il non-luogoCamminare sulla Luna, celebrare un matrimonio tra bianchi e neri, infrangere il muro del suono, non erano forse tutte quante utopie prima di varcare la soglia del reale? Si tratta soltanto di capire quanto possa essere lungo ed impervio il tratto di separazione tra ideale e realtà. Daniel Tarozzi, che di professione fa il giornalista ma di vocazione un mortale supereroe, ha provato a misurare questa distanza tramite il suo progetto www.italiachecambia.org dove si percorre tutto lo Stivale alla ricerca delle iniziative più rivoluzionarie intraprese da Comuni, agricoltori o semplici cittadini, linfa vitale del Bel Paese.

Tuttavia, da bravi figli dell’epoca nuova, non ci facciamo mica ingannare da un pallido sole che inneggia tremebondo al cambiamento. Vivere in Italia, talvolta, ci fa assomigliare a Sam, il protagonista della grottesca società distopica di Brazil (Gilliam, 1985). Alla fine del film ci si sente completamente alienati, immersi in un incubo post-orwelliano, con la conseguente trasformazione dell’individuo in un perfettamente sostituibile uomo-massa.

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Senza sfociare negli estremi apocalittici della distopia per definizione, non resta che chiedersi quale sia il limite valicabile tra come vorremmo che fosse e com’è realmente.  Vorrei poter estrarre la risposta corretta dal cilindro magico, ma forse nemmeno esiste una soluzione univoca.

Quella in cui credo è una sorta di utopia dai labili confini, basata sulla consapevolezza della necessità umana di cercare perennemente qualcosa di “altro”, di nuovo, di migliore, e di non sentirsi mai arrivati.

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