The Danish Girl, di Tom Hooper
Poteva essere un gran bel film. Un film che parla di corpi e di cambiamenti, della distanza fra il corpo materico e la materia pensante che chiamiamo pensieri o anima. Poteva esserlo, ma non lo è.
Tom Hooper è sempre più un regista di “regime” (per di più ancien), che non vuole scandalizzare nessuno, infastidire nessuno, ma piacere a tutti. Una regia sorniona, furba, delicata, cromaticamente impeccabile e senza alcun nerbo, confezionata per un melò che sposta l’attenzione dal punto centrale, il corpo. Tutta l’azione è concentrata fra gli sguardi timidi del protagonista ed il mondo esterno. Il corpo non esiste, sparisce, ricoperto di vestiti di seta e merletti, nascosto da qualche parte dietro gli sguardi languidi e vergognosi. Anche il cambiamento viene clamorosamente bruciato al falò del politically correct: il protagonista si rende conto di volere essere donna in una sera (nella sceneggiatura), cioè in 45 secondi di film o poco più, in cui passa da amante focoso della bellissima moglie a “senti che bella al tatto questa calza di seta”.
Eddie Redmayne è come sempre bravo, ma ormai incatenato al ruolo del timido incapace, come già in La Teoria del Tutto (e se sostituisci la sedia a rotella alle trine e alle sete, cambia davvero poco), costretto a lavorare solo con gli occhi, da un corpo negato. Conferma una bravura in crescita, invece, Alicia Vikander, che avevamo piacevolmente scoperto in Ex Machina. È lei l’unico corpo non completamente cancellato dell’intero film. Eppure ripreso nella sua bellezza senza sbavature, sembra, ancora una volta, sminuito nelle poche scene di nudo contenuto – coprite gli occhi ai bambini, per carità!
The Danish Girl poteva essere un bel film, altrove in un altro tempo. Non lo è. È un melodramma adatto agli anni ’30 senza alcun coraggio. Non ha scandalizzato neppure Adinolfi, che per la rabbia si è mangiato tutti i vestiti di scena.
Voto: 6
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