La pistola a tamburo dei Beatles

La pistola a tamburo dei Beatles

È il 1966 e per i Beatles, con sei LP all’attivo – e una media di ben due l’anno, senza contare i singoli e gli EP – i tempi sono maturi per il cambiamento che costituirà una svolta epocale nella loro carriera.

Revolver non è un semplice album, ma un vero e proprio punto di rottura tra la precedente immagine di boy band in versione “alta qualità” e quella successiva che li consegnerà alla storia in veste di veri e propri artisti capaci d’influenzare per decenni a venire.

Se con Rubber Soul la qualità della produzione tecnica e lirica aveva avvertito un deciso miglioramento, con Revolver si potrebbe parlare di un vero e proprio risveglio. Quello degli stessi Beatles, dovuto alla loro crescita personale e professionale, e alle visioni di John e George dopo aver sperimentato gli effetti degli allucinogeni; ma anche e soprattutto all’apertura di quest’ultimo – trasmessa poi ai compagni in termini e modi differenti – nei confronti della cultura indiana. Eppure il risveglio è anche quello cui i Beatles iniziano a invitare i propri ascoltatori; dopo avere per anni cantato i sentimenti più comuni in pezzi orecchiabili di due minuti o poco più, è come se l’immaginaria cinepresa in mano ai compositori facesse qualche passo indietro per offrire un’immagine grandangolare, includendo soggetti e temi più diversi. Non rinunciano del tutto ad abbozzare le scene di vita quotidiana che li hanno resi celebri, ma ne ampliano i contorni introducendo elementi psichedelici (Tomorrow Never Knows, Love You To, She Said She Said, I Want To Tell You), riflessioni sulla realtà sociale (Eleonor Rigby) ed economica (Taxman) a loro contemporanea e sull’uso di droghe (Doctor Robert, Got To Get You Into My Life).

Taxman (Harrison) apre con delle considerazioni satiriche sull’imposizione fiscale con cui il quartetto di nuovi ricchi si scontra: ecco allora una serie di simpatiche iperboli cantate da George – e sorrette dai suoi stessi penetranti assoli – che culminano con “Un consiglio per quelli che muoiono/Dichiarate i penny che vi metteranno sugli occhi” (in riferimento all’usanza dell’antica Grecia di mettere delle monete sugli occhi dei defunti come tributo perché fossero traghettati nell’oltretomba, ndr).

Una delle tracce più celebri e controverse è sicuramente Eleonor Rigby, la cui attribuzione è stata a lungo dibattuta tra Lennon e McCartney. La protagonista, che dà il nome alla canzone, e Padre McKenzie sono vittime della solitudine cui sono relegati, le cui vite scorrono ai margini di una società indifferente; sono destinati a non incontrarsi mai, se non quando il parroco celebrerà il funerale della donna. L’atmosfera greve è magistralmente riprodotta da un gruppo d’archi (violini, viole e violoncelli), un arrangiamento deciso da Paul che si rivela fondamentale per attribuire al pezzo un pathos non altrimenti raggiungibile.

I’m Only Sleeping parla di sonno vero e proprio, e per la precisione di quello di John. Definito(si) in una celebre intervista “la persona più pigra d’Inghilterra”, Lennon scrive questo pezzo autoironico approfittandone per criticare la rigida operosità inglese (“Tutti sembrano pensare che io sia pigro/Non importa, io penso che siano matti/A correre dappertutto a una tale velocità/Fino a che non scopriranno che non ce n’è motivo”). Il sonno sembra quasi poter offrire un porto sicuro in contrasto con un mondo che viene “tenuto d’occhio dalla finestra” ma che risulta forse troppo chiuso e distante da quello desiderato. Per ottenere quest’effetto di sonnolenza, oltre ad aver registrato la voce di Lennon su nastro rallentato per poi velocizzarla in fase di mixaggio e ad aver fatto il contrario con la base ritmica, Harrison decide di sperimentare un effetto “chitarra a ritroso”, ottenuto non incidendo normalmente per poi far scorrere il nastro all’inverso, ma eseguendo gli assolo (accompagnato da McCartney) partendo proprio dall’ultima nota.

Love You To è la seconda delle tre tracce composte da Harrison (l’ultima è I Want To Tell You) e la prima a rivelare inequivocabilmente il richiamo alla musica indiana. Il sitar si fa protagonista, dopo una prima comparsa in Norwegian Wood (nel precedente Rubber Soul), assieme ad altri strumenti tipici di quella tradizione – il tabla e il tanbur – che nell’insieme conferiscono al pezzo una sinuosità del tutto caratteristica, in contrapposizione ai piatti vocalizzi, quasi messianici, di George. I riferimenti sono presenti anche nel testo, che strizza l’occhio a una concezione quasi epicurea della vita invitando a ricercarne i piaceri come unica via per sconfiggerne la precarietà.

Yellow Submarine (McCartney) nasce “in quella piacevole zona crepuscolare a metà tra la veglia e il sonno, una specie di limbo nel quale stai liberandoti dal peso della giornata e stai scivolando nel sonno”. È in quel momento che Paul concepisce l’idea del pezzo, riservato sin da subito alla voce di Ringo per le sonorità semplici e per la giocosità del testo, e destinato a un grande successo di pubblico. La canzone, apparentemente infantile, sembrerebbe quasi un divertissement corale, ma contiene il germe di temi che saranno poi sviluppati in un film di animazione (1968) e un LP dedicato (1969).

L’idea dietro a She Said She Said nasce da un trip in cui Peter Fonda raccontò a John di esser sopravvissuto a un proiettile che gli trapassò l’addome dicendo quindi di “saper cosa vuol dire esser morti”; Lennon ne rimase così turbato da rispondere che allora lui non “sentiva nemmeno d’esser mai nato”. Ciò che più colpisce resta comunque la sua ipnotica chitarra elettrica, mentre l’organo Hammond conferisce maggiore armonia e carattere all’insieme.

Here, There and Everywhere e For No One sono tra le canzoni d’amore forse più riuscite nella carriera di McCartney, meravigliosamente romantica la prima– sull’innamoramento – quanto drammaticamente struggente la seconda sulla rottura.

Con la sua stramba melodia accattivante, Dr. Robert raffigura invece un dubbio individuo solito distribuire “qualcosa che ti tiri su” (presumibilmente si tratterebbe di John e del suo rifornimento agli altri compagni), mentre Got To Get You Into My Life non sarebbe dedicata ad una donna, ma alla marijuana.

Chiude il disco Tomorrow Never Knows, la più psichedelica di tutte le tracce e la più radicalmente diversa da qualsiasi altra cosa i Beatles abbiano mai inciso in precedenza. Composta da Lennon, rappresenta un ideale raccordo tra questo ed il disco successivo – Sgt. Perpper’s Lonely Hearts Club Band, destinato a marcare la svolta definitiva del gruppo – nel senso che, in particolare, sembra gettarne le fondamenta. Un turbinio di strumenti e loops di effetti sonori avvolge la voce di Lennon che, come in un sermone, finisce per trasportare l’ascoltatore in una dimensione quasi meditativa: “Spegni la mente, rilassati e fluttua nel verso della corrente/Non significa morire”.

Dicono che Sgt. Pepper’s sia l’album dei Beatles che più ha segnato la loro carriera – e la storia della musica contemporanea. Può essere; quel che è certo è che, senza Revolver, non sarebbe mai esistito.

Chiara Marchisotti

 

titolo | Revolver
anno | 1966
artista | The Beatles
genere | Pop/Rock
durata | 34:40’
etichetta | Parlophone/Capitol

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