Salò o le 120 giornate di Sodoma – la teoria del corpo di Pasolini
Teorema
Il corpo è rivoluzionario.
Con questa tesi, Pier Paolo Pasolini gira la Trilogia della vita (comprendente Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte). Il corpo, il corpo dei ragazzi giovani, il corpo libero e nudo dei suoi ragazzi di borgata, il corpo da cui parte e a cui arriva ogni desiderio, a partire da quello sessuale, è il punto di partenza per qualsiasi tipo di rivoluzione, anche politica. Lo capiva bene Orwell, che fece iniziare la ribellione del protagonista di 1984 proprio con una relazione sessuale, col desiderio e l’atto sessuale, da cui prenda origine il desiderio e l’atto di libertà.
Pasolini, però, era un intellettuale ed un poeta e sapeva bene che la sua prima necessità era quella di esplorare i limiti della sua opera. Dunque, era intenzionato a girare una speculare Trilogia della morte, di cui purtroppo ci rimane solo un film e la sceneggiatura abbozzata del secondo. Nel primo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, il regista si prefigge di ribaltare la sua tesi iniziale. Il corpo, dunque, può essere mezzo di costrizione. Chi controlla il corpo e quindi il desiderio, ha il potere e contrastarlo diventa quasi impossibile, poiché il mezzo della rivolta è esso stesso mezzo di controllo. Rimanendo nel paragone distopico, Huxley aveva avuto la stessa intuizione (Orwell pensa, Huxley intuisce) nel suo Brave New World, dove non esiste ribellione (non esiste neppure polizia!), perché il sesso è controllato mediaticamente dal governo. Al selvaggio (ragazzo di vita, potremmo chiamarlo) non resta che il suicidio.
Salò prende spunto dalla geniale mente del Marchese De Sade, solo trasportando l’ambientazione nel periodo della Repubblica di Salò, e narra di quattro facoltosi fascisti, il “Duca”, il “Monsignore”, Sua “Eccellenza” giudice di Corte d’Assise e il “Presidente” di una banca, emblemi di quattro Poteri forti, che decidono di rinchiudersi in una villa bella e decadente ed abbandonarsi ad ogni fantasia erotica e ad ogni turpitudine con un gruppo di fanciulli e fanciulle rapiti per l’occasione. Il film si apre a Salò per non tornarci mai più, se non nelle promesse fatte ai ragazzi prigionieri che meglio si sono comportati. Il Potere si chiude in una villa lontana dal mondo reale, il Potere si distacca dalla vita vera, ma soprattutto non la considera, agendo come preferisce. Nella villa, sotto l’egida di tre mezzane che raccontano storie di erotismi e indecenze per suscitare la fantasia dei quattro padroni, si svolgono le attività più oscene a discapito dei ragazzi. Si inizia con Girone delle Manie, dedicato fondamentalmente alla sodomia; poi si passa al Girone della Merda, incentrato su un sontuoso banchetto coprofago, per terminare col Girone del Sangue, dove le peggiori torture sono inflitte ai prigionieri, per soddisfare sadismo e necrofilia.
I ragazzi, nove ragazze e otto ragazzi, sono molti di più dei loro persecutori e, inoltre, mal sorvegliati da poche guardie male armate, che presto iniziano a partecipare alle orge; la villa non ha recinzioni vere. Eppure i ragazzi non tentano praticamente mai la fuga. Il Potere con la manipolazione e la creazione del Desiderio, con la costrizione dei corpi, ottiene la sua vittoria, senza neppure combattere. Nessuna delle vittime, a differenza dei carnefici, viene tratteggiata dal regista, nessuna ha una propria personalità: il corpo per il Potere non è individualità, ma mero oggetto. Inoltre, quel corpo non deve suscitare immedesimazione da parte dell’osservatore. La “mercificazione del corpo” che Marx applicava al capitalismo è qui ripresa, ma in un’ottica quasi consumistica. I quattro signori non provano alcun sentimento per gli oggetti del loro trastullo e anzi il Presidente, mefistofelico e fanciullesco al contempo, sottolinea le morti con una barzelletta.
Il fascismo, infatti, per Pasolini altro non è che una metafora. Non è solo il movimento politico di Mussolini, comunque sempre avversato dal regista, ma è un modo d’agire, di pensare. Il Potere, per Pasolini, è esso stesso fascista, perché vive al di sopra delle leggi, usando le persone come corpi vuoti, nell’anarchia che solo il comando assoluto può dare. “Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune” ebbe a dire il regista in una delle sue ultime interviste. Il fascismo di Pasolini, dunque, copre anche la politica del suo tempo, dominata dalla Democrazia Cristiana e dagli intrighi (“Io so. Io so i nomi dei responsabili…”), ma anche la politica dei giorni nostri; il fascismo è il consumismo che stava dirompendo negli anni del film e che oggi è profeticamente giunto al suo culmine (lo stesso Andy Warhol concepì l’immagine ripetuta come completa decontestualizzazione, con un corpo-oggetto, come una pubblicità); fascista è lo sfacelo “culturale e antropologico”, livellato spietatamente dalla politica fascista e dal consumismo, che ha portato alla cementificazione, all’adeguarsi ad un modello dato dalla televisione (i collaborazionisti, nel film, alla fine si eccitano delle stesse cose di cui godono i signori: sono loro che “possono sperare” di seguirli a Salò!), all’uniformazione massificante, che fa tradire il prossimo, vittima fra le vittime, per di essere gratificati. Tutto questo era stato detto e profetizzato.
Fa da contraltare al grido disperato delle tematiche, la regia pulita e netta di Pasolini. Le inquadrature seguono sempre delle linee geometriche di simmetria, l’attenzione nei particolari degli interni della villa e dei costumi è, come sempre, meticolosa, la fotografia mira alla perfezione. Il regista continua il lungo dialogo da sempre intrapreso, fin dai tempi degli studi universitari, con l’arte figurativa classica, in particolare la pittura. La necessità di misurarsi con le arti più nobili e la grande difficoltà ad aderirvi, la frattura del non potervi appartenere, col cinema (ne è manifesto La Ricotta), è anche qui sottolineata. Spiccano appesi alle pareti rosse quadri di ogni sorta, accatastate negli sgabuzzini statue sacre e pale d’altare. Neppure la cultura, però, viene in soccorso al corpo espropriato del desiderio.
Il film, come l’opera letteraria da cui prende origine, può (e deve) essere letto a più livelli o, se vogliamo, con più parti del corpo. Il primo impatto con le immagini (ma lo è ancor di più con le parole di De Sade) è di pancia, un pugno dritto all’addome. Le tematiche, le immagini, sono spesso disturbanti e non consigliate a “stomaci deboli” o a persone facilmente suggestionabili (NON guardatelo, non è un film per tutti!). Subentra poi il cervello, la capacità di cogliere il senso profondo di una metafora, lo spazio sotteso fra le parole, i vuoti fra i corpi. La denuncia di un sistema di Poteri che coinvolge anche noi, oggi più che mai, e che fa riflettere sulla capacità di analisi del contemporaneo che aveva Pasolini. Arrivano infine gli occhi e le orecchie, che ammirano la precisione formale della realizzazione, la bellezza dietro le turpitudini, e la musica suonata dal piano o dalla radiolina che sempre accompagna e sottolinea, fino alla grottesca scena finale. Salò, l’ultima grande opera di Pasolini è tutto questo più qualcosa d’altro, che ci dice che l’insieme è più della somma delle parti. Qualcosa che ci ricorda che sul Lido d’Ostia, il 2 novembre del 1975, abbiamo perso il più grande intellettuale del dopoguerra.
Alessandro Pigoni
Titolo: Salò o le 120 giornate di Sodoma
Anno: 1975
Durata: 111 min. (versione italiana censurata)
Regia: Pier Paolo Pasolini
Soggetto: Pier Paolo Pasolini (dai romanzi del Marchese de Sade)
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