Poesia tra inchiostro e note
Non al denaro non all’amore né al cielo è un concept album registrato nel 1971 da Fabrizio De André ispirandosi all’Antologia di Spoon River, raccolta di poesie pubblicata a partire dal 1914 da Edgar Lee Masters sul giornale Mirror di St. Louis, in Missouri.
Ma nei suoi poco più che trenta minuti di ascolto è anche un dialogo tra immagini tratte da opposti contesti spaziali e temporali. La serena provincia americana di inizio secolo, che non sarebbe stata toccata dal vicino scoppio della guerra in Europa e che si contrappone così al dramma dei soldati al fronte e più tardi del terrorismo (“dove sono i figli della guerra, partiti per un ideale / per una truffa, per un amore finito male”), all’emarginazione sociale (“e la luce del giorno si divide la piazza / tra un villaggio che ride e te, lo scemo che passa”), al disagio giovanile e al primo dilagare dell’uso degli stupefacenti tra i giovani dell’Italia di inizio anni Settanta (“perché le pupille abituate a copiare / inventino i mondi sui quali guardare”). In qualche modo si respira nell’album anche l’Italia della Resistenza, durante la quale l’ “Antologia” venne coraggiosamente tradotta da Fernanda Pivano nonostante l’ostilità del fascismo alla letteratura statunitense: la stessa Pivano che, nel sentire la versione finale dell’album, scrisse che, a suo giudizio, il confronto fra due grandi della musica del secolo, e in particolare la tradizionale, forse riduttiva etichetta di De André come del “Bob Dylan italiano”, dovesse essere invertito.
L’album è anche un gioco di rimandi tra due forme di letteratura: la canzone d’autore e il verso libero degli epitaffi redatti dalla penna di Lee Master per le silenziose parole di un cimitero di campagna, entrambe al servizio delle voci che da quel luogo parlano della vita e conversano tra loro, ricordano i concittadini, a volte li maledicono per sgarbi non perdonati, spesso ne rammentano i sentimenti e persino si esibiscono in postume dichiarazioni d’amore, come nell’indimenticabile storia narrata al visitatore dalla lapide dello sfortunato Francis Tuner (ripresa da De André nella traccia “Un malato di cuore”), che da giovane vedeva “i ragazzi giocare” e si chiedeva “come diavolo fanno a riprendere fiato”, ma ora non invidia più i viventi perché all’ultimo istante ha conosciuto la felicità.
Perché allora ascoltare oggi Non al denaro, non all’amore né al cielo? Perché parafrasando Calvino si ha l’impressione, ad ogni ascolto, che ci si confronti con un album e forse prima ancora con un’unica lunga poesia in otto frammenti destinata a diventare un classico, nel senso che “non ha mai finito di dire quello che ha da dire”. La sensazione è confermata dalla modernità dei temi che De André inserisce nelle parole dei suoi personaggi, talvolta anche innovando rispetto alla fonte ispiratrice americana come nel caso dell’epitaffio di Lee Master sulla figura dell’oculista del paese rivisitato in un più moderno “mercante di luce” e, più incisivamente, in uno “spacciatore di lenti” cui si rivolgono i disperati “per improvvisare occhi contenti” nello psichedelico testo di “Un ottico” (“Vedo che salgo a rubare il sole / per non aver più notti / e perché non cada in reti di tramonti / l’ho chiuso nei miei occhi”); e poi i temi che De André denunciava nel 1971 e sono ancora tristemente d’attualità come le morti bianche (“e cosa ne sarà di Charlie / che cadde mentre lavorava / e dal ponte volò / volò sulla strada”), la solitudine nel ritardo mentale (“tu prova ad avere un mondo nel cuore / e non riesci ad esprimerlo con le parole”), il crescere della povertà di chi ha “la diagnosi in faccia e per tutti era uguale / ammalato di fame incapace a pagare”.
Sia Lee Master che De André hanno però vinto la scommessa di fare poesia sulla morte, o meglio di fare poesia sulla felice intuizione del tranquillo chiacchierare delle steli in un’atmosfera che, fuggendo dal tetro, richiama le luci di una chiara giornata di sole (come nella celebre copertina del trentatré giri) e riflette un laico, azzurro oltretomba che non ha nulla dei fuochi e delle sofferenze di un inferno dantesco. E allora, a voler trovare un parallelo, facciamoci accompagnare dalla chitarra folk di “Faber” (e dal pianoforte e dagli arrangiamenti di un giovane Nicola Piovani) nel varcare la soglia di questo sereno limbo novecentesco attraverso l’introduttiva traccia “La collina”, che nella ripetuta domanda su dove siano ora i personaggi che animavano un tempo la vita della cittadina, forse formulata da un compaesano che torni per una visita dopo tanti anni, richiama l’“où sont les neiges d’antan” di Villon e della tradizione letteraria e musicale francese, tanto cara a De André.
Già le prime note sembrano evocare, anche acusticamente, il cigolio di un cancello che interrompe una staccionata verniciata di fresco e apre su un verde prato di campagna, animato soltanto dal soffuso chiacchierare delle 244 voci (nell’album ridotte a 8) che si rivolgono al visitatore.
Nell’arte di De André, quasi epigrammatica, di trovare la parola che stordisce ora per la sua dolcezza ora per la sua assoluta ferocia, incontriamo allora l’iscrizione quasi brechtiana per i soldati morti sul fronte, le cui spoglie sono state “legate strette nelle bandiere / perché sembrassero intere”, e poi la storia soltanto accennata delle giovani Ella e Kate, sepolte vicine perché “morte entrambe per errore / una d’aborto, l’altra d’amore”; la prostituta Maggie che è stata ammazzata dalle “carezze di un animale”; il rivoluzionario che era solito negare Dio mentre gli inorriditi compaesani indossavano l’abito della domenica per la messa nella bianca chiesetta del paese, e che venne ucciso in carcere da “due guardie bigotte” che gli dimostrarono infine l’esistenza della anima, ma soltanto“a forza di botte”; il chimico che, chiuso nel proprio laboratorio, disprezza l’affetto di una donna e muore “in un esperimento sbagliato / proprio come gli idioti che muoion d’amore” ma ora ammette che “qualcuno dirà che c’è un modo migliore”; il “matto” che matto non è ed è solo impazzito dopo una vita a sentirsi dare malignamente del pazzo, che ancora soffre nel sentire “le voci in sordina di chi ha perso lo scemo / e lo piange in collina” e “ancora bisbiglia con la stessa ironia / una morte pietosa lo strappò alla pazzia”. Due parole che non abbandonano più: l’ingiusto carcerato che guarda dalla finestra e “sfoglia” i tramonti in prigione, e il ragazzo alle soglie del primo bacio che ricorda la dolcezza del gesto delle dita di “contare” i capelli dell’innamorata.
E infine l’indimenticabile, autobiografica figura del vecchio musicista del paese, stupitosi con il suo “ridere rauco” di vedere i propri novant’anni, quel “suonatore Jones” che De André disegna con i caratteri di una vita trascorsa “con rimorsi, tanti / e nemmeno un rimpianto”, senza mai un pensiero “non al denaro, non all’amore né al cielo”: e che al mercante di liquori era solito chiedere, con geniale semplicità, “tu che lo vendi / cosa ti compri di migliore?”.
Marco Russo
titolo | Non al denaro, non all’amore né al cielo
anno | 1971
artista | Fabrizio De André
genere | Folk-Rock
durata | 31:29′
etichetta | Produttori Associati
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