Welcome to the jungle, quella vera
Da sempre subisco una fascinazione violentissima per l’Asia e per tutto ciò che la riguarda. Certo, so benissimo che prendere il meglio di una cultura è roba facile che sanno fare tutti, ma, insomma, le passioni ce le possiamo scegliere per cui non starei troppo a sindacare su questo punto. Un secondo elemento che dovete tener presente è che io sono paurosa. Mi danno sicurezza gli elenchi, per dire, l’ordine e il minimalismo. Proprio per questo – e nonostante questo – il mese scorso, insieme alla parte migliore di me, sono andata nella giungla, in Malaysia. Finalmente l’Asia.
Ho viaggiato per la Malaysia con lo zaino in spalla e il sudore costante sulla fronte, dalla sua capitale, Kuala Lumpur, fino giù, in fondo, a Singapore. Ma non vi voglio parlare né della Malaysa né di Singapore – e lo so, vi sto confondendo – ma di un pezzettino di questo viaggio. I giorni che ho passato nella giungla.
Nel nord dello stato esiste una zona – ideale proseguimento del Borneo che si trova nella Malaysia orientale – tra gli stati del Pahang, Kelatan e Terengganu, che è dal 1938 parco nazionale. Taman Negara, infatti, in lingua malese, significa proprio questo. Il parco è caratterizzato da più di 4000 km quadrati di giungla – umida, troppo umida, umidissima – e un patrimonio di fauna e vegetazione tra i più antichi al mondo.
L’idea di andare nella giungla è sempre stata fissa nella mia mente fin da subito, dal momento dell’organizzazione del viaggio e quindi, il giorno in cui sono salita su quella barchetta di legno lunga e stretta che in circa tre ore mi ha portata fino al parco, be’, quello è stato davvero un giorno bellissimo. Per raggiungere il parco, oltre la poco sicura ma pur sempre affascinante imbarcazione, ho preso anche un bus che da Kuala Lumpur, in quasi tre ore mi ha portata al piccolo porticciolo, porta ideale per giungere al parco.
Gli insediamenti umani nella giungla, ad esclusione degli Orang Ansli, una popolazione primitiva che vi abita, sono rari ma necessari. Per la sopravvivenza. Se si vuole mangiare, bere o dormire bisogna fare riferimento ai minuscoli negozietti improvvisati, ai bungalow di legno e ai ristorantini galleggianti che accolgono i nuovi arrivati. Si trova tutto nel raggio di pochissimo spazio perché il resto è regno di piante e animali. A questo proposito essendo la casa di tigri, rinoceronti, elefanti e altre simpaticissime creature è sempre necessario far riferimento a qualcuno per le escursioni. Questo qualcuno, in uno dei ristoranti galleggianti, ha un ufficio: una scrivania e un blocco.
Lì ho capito che avrei amato quel posto.
A partire dal quartier generale potete organizzare una serie di escursioni a pagamento. Le escursioni in solitaria sono sconsigliate anche per i più esperti. Esistono diverse possibilità e gradi di difficoltà che vanno da esplorazioni di mezza giornata a camminate di diverse settimane per raggiungere le zone più remote del parco. Se poi siete pigri potete pensare di fare un safari notturno a bordo di una jeep o attraversare una piccola porzione della giungla in barca o ancora andare a trovare gli Orang Ansli e scoprire come vivono. Tutto questo è organizzabile in loco o attraverso le agenzie di viaggio presenti in città, a Kuala Lumpur. Noi ci siamo affidati alla Han Travel (http://www.hantravel.com.my) solo per l’organizzazione del viaggio e dell’alloggio ma è possibile richiedere la loro assistenza anche con veri e propri pacchetti completi ma, opinione mia, mi sembra si perda un po’ lo spirito del viaggio. Arrangiarsi da soli, infatti, non è assolutamente complicato: per mangiare esistono i floating restaurant, i ristoranti galleggianti, che con pochissimi Rinngit offrono dei pasti completi. Necessariamente bisogna adattarsi a situazioni igieniche distantissime da noi ma anche questo è immergersi in un’altra cultura, no? Per dormire ci sono varie possibilità: dalle più costose e occidentali – che non sto a commentare – alle più spartane e vicine al loro modo di vivere.
Non è facile la giungla. Io l’ho apprezzata piano piano. Le prime ore è impossibile ignorare il sudore – e per sudore intendo proprio dover strizzare gli abiti – ignorare i rumori, ignorare l’assenza di condizioni igieniche e ignorare di avere un enorme geco e un migliaio di minuscoli insetti in bagno. Ma non si può fare a meno di essere grati di averlo, il bagno.
Ma poi tutto questo inizia a diventare familiare e nonostante la fatica – ché credetemi anche il trekking più leggero con il 90% di umidità è mortale – capisci che questa cosa, perché nemmeno so come definirla, non te la scrollerai più di dosso.
La giungla insegna tantissime cose, prima tra tutti, a non dimenticare mai il repellente per le zanzare. Ma insegna anche l’umiltà e la gratitudine, che di certo non sono proprio da buttare via.
Un pomeriggio, ad esempio, sudata come un muflone – ma poi sudano davvero? O è una leggenda? – ero di ritorno da un trekking e da una roba, che per una cagasotto come me, è stata lodevole: l’aver affrontato un lungo canopy walk (un ponte tibetano) sospeso a più di 40m sulla giungla. Io le vedevo le tigri sotto che mi dicevano: dai, dai cadi, cadi! (no le tigri non c’erano ma romanzare è bello) mentre passo dopo passo, su assi scricchiolanti, proseguivo avendo in testa, come meta finale, la doccia.
Che cosa meravigliosa la doccia. E, insomma, ero lì che pensavo a quanto fossi diventata avventurosa e al fatto che, però, avrei voluto una doccia normale e non un tubo di gomma verde, quando incrocio quest’uomo, abbastanza giovane, sporco e con pochissimi denti che mi sorride e dice: “How are you?”. Io rispondo sorridendo che stavo bene e pongo la stessa domanda. E lì, in quel momento, ricevo la risposta che mi avrebbe ribaltato ogni prospettiva e che avrebbe dato senso a tutto quel viaggio. “I’m always super good!”. Già. Lui, senza nulla, era always super good. Non è meraviglioso? Ci ho pensato per giorni, poi, e quella sera la mia doccia improvvisata mi è sembrato il dono più prezioso che potessi avere.
Qualche giorno dopo, salendo sulla barchetta e augurandomi di arrivare viva alla fine del tragitto, mi sono resa conto che quel posto mi sarebbe mancato enormemente. Con i suoi odori, con i suoi rumori, col buio totale della notte. Mi sarebbe mancato perfino Patrizio, detto Patti, il geco che in quei giorni avevo imparato a conoscere e farmi amico.
La doccia no, però. Quella meno.
Il resto della Malaysia ve la racconterò, se vorrete, ma la giungla meritava spazio perché rappresenta un viaggio a sé.
Mareva Zoli