Hebron: il tour della violenza senza confini

Hebron: il tour della violenza senza confini

La città di Hebron, a  trenta chilometri a sud di Gerusalemme, è tra i più antichi insediamenti ancora abitati del vicino oriente, ed è da sempre un importante luogo di culto per le tre grandi religioni monoteiste.

Secondo la Bibbia, infatti, Abramo, Isacco e Giacobbe, con le rispettive mogli, non solo avrebbero trascorso gran parte della loro vita a Hebron, ma  sarebbero addirittura sepolti in quella che è oggi la monumentale Tomba dei Patriarchi, che sovrasta un’antica grotta a sud della città. Questo sepolcro è dunque meta di pellegrinaggio e venerazione sia per i musulmani, che hanno eretto una moschea in una parte dell’edificio, sia per gli ebrei, per i quali tale struttura resta una delle poche opere architettoniche ebraiche interamente conservate e, soprattutto, il luogo sacro più importante dopo il Monte del Tempio. Secondo quanto scritto nel Pentateuco, infine, è a Hebron che David venne incoronato re d’Israele, ed è lì che Mosé ha inviato uno dei dodici esploratori durante la fuga d’Egitto del popolo d’Israele.

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Questo excursus biblico è necessario per comprendere – o per cominciare almeno ad intuire-  il clima di tensione che regna ormai da tempo ad Hebron. Qui le pressioni contrapposte sono storicamente sfociate in rappresaglie, attentati, massacri e repressioni, le cui vittime si contano a decine e decine da ambo le parti. Per la precisione, la popolazione si compone di duecentomila Palestinesi e di settecento Ebrei, che hanno cominciato a reinsediarsi nell’area solo a seguito della guerra dei Sei giorni, nel 1967. Si tratta perlopiù di coloni ultra ortodossi, che rivendicano le terre che un tempo furono dei patriarchi come legittima –ed esclusiva- proprietà del popolo d’Israele. Inutile dire che l’integralismo religioso di questo gruppo di ebrei (criticato e tacciato di xenofobia da una folta compagine di Israeliani stessi) ha istantaneamente reso insostenibile il già precario equilibrio della città, i cui abitanti hanno a più riprese delegato alla violenza più estrema l’arduo compito di “fare giustizia”.

Si è infine giunti a una “soluzione” mediata tramite il Protocollo di Hebron del 1997, che ha previsto la divisione la città in due zone: la prima, più estesa, sotto la legislazione dell’Autorità Palestinese, e la seconda, con una popolazione di trentamila palestinesi, sotto il controllo israeliano. La criticità di quest’ultima area, dovuta alla difficile convivenza tra i due gruppi, si è puntualmente ripresentata. Rivendicando un necessario aumento delle misure di sicurezza, durante la seconda intifada, l’esercito israeliano ha cominciato a imporre dei coprifuoco e a limitare – o negare del tutto- l’accesso dei palestinesi ad alcune parti del centro storico e della città vecchia. In poco tempo nelle aree colonizzate fu vietato ogni esercizio commerciale che non fosse gestito da Ebrei, causando così la chiusura di 1929 negozi. Le difficoltà economiche dovute a questa direttiva, aggiunte ai frequenti controlli e a vergognosi atti di razzismo, hanno dunque spinto centinaia di Palestinesi a trasferirsi altrove, abbandonando più di un migliaio di case.

La via Suhada si trova in pieno centro e costituiva l’arteria principale del commercio cittadino. Dal 2010 è praticamente deserta, bandita ai Palestinesi e percorsa di tanto in tanto dai carri armati o dai turisti. Sì perché in tutto questo brulicare di odio, violenza e ingiustizia, c’è ancora spazio anche per il turismo. L’iniziativa, coraggiosa e incoraggiante, è stata lanciata da Breaking the Silence, una ONG composta da ex membri dell’esercito israeliano che hanno deciso di raccontare la loro testimonianza di soldati nella striscia di Gaza e nei territori occupati. Ecco dunque che i veterani accompagnano turisti stranieri ed israeliani attraverso l’inferno dell’occupazione. Passano attraverso i posti di blocco, raccontano le agghiaccianti missioni alle quali hanno preso parte e svelano gli ordini impartiti dai loro superiori: “difendere i coloni, sempre e comunque” anche quando sono i coloni stessi a istigare alla violenza.

Gli episodi narrati sono spaventosamente ricorrenti: ai checkpoint bambini o adolescenti sono bendati e legati, costretti a passare così l’intera notte; nelle strade donne ebree ortodosse insultano ragazzine palestinesi velate che vanno a scuola; retate nel cuore della notte costringono famiglie intere a uscire dalla propria casa per lasciare che i soldati frughino in tutti i cassetti; dalla sera alla mattina, le strade sono cintate da rotoli di filo spinato e alcune dimore non più facilmente accessibili. L’obiettivo di Breaking the Silence, implicito nel nome dell’organizzazione, è quello di dare voce e risonanza al grido di condanna che le vittime di tali violenze non hanno più forza di emettere. In particolare, come sottolineato dal direttore Mikhael Manekin, i soldati che testimoniano –spesso anonimamente-  vogliono rompere il silenzio e il tabù che regnano sull’operato dell’esercito israeliano nei territori palestinesi occupati.

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I tour di Hebron e delle colline circostanti, dunque, vogliono mostrare uno spaccato vero della vita quotidiana di migliaia di persone, senza fronzoli né mediazioni. Il turista si trova catapultato in una sorta di mondo parallelo che è atroce realtà: un’esperienza che lascia un segno profondo a più livelli, dai partecipanti, ai protagonisti delle “storie”, passando per i narratori. Se un viaggio in Cisgiordania non rientra ancora nei vostri programmi, potrete immergervi nelle polverose vie di Hebron e respirarne l’odio anche attraverso lo straordinario documentario This is My Land, diretto da Giulia Amati e vincitore del premio Donatello nel 2011 (disponibile su rai.tv). Si tratta di uno studiato incastro di interviste, testimonianze e frammenti di ordinaria occupazione che, ancora una volta, proiettano lo spettatore là, per le vie di Hebron, sul campo di battaglia.

Proprio là  dove la paura e l’integralismo religioso creano non solo posti di blocco e confini in filo spinato, ma anche barriere meno visibili, imposte dell’odio razzista e dal fanatismo, che si rivelano terribilmente concrete.  Sono proprio questi confini, tutt’altro che astratti, che costituiscono contemporaneamente la causa e la tragica conseguenza di un dolore senza sosta e di un annoso accanimento che non può – e non deve –  passare inosservato.

Elisa Cugnaschi

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4 COMMENTS

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