Luglio 2015. L’afa schiaccia la pianura padana in una morsa molle, l’aria sfilacciata tiene la mente bloccata, confusa. Credo di avere bisogno di scappare un attimo. Di staccare davvero. Apro di getto il sito di Ryanair, patrona degli uomini sull’orlo di una crisi di nervi. Colto dall’illuminazione dell’utile e del dilettevole, del calcolo di affetto e opportunità, penso a mio fratello che vive a Londra.
Ecco: nel bel mezzo della Pianura Padana, a Parma, c’è un piccolo scalo per biplani. Un campo che eufemisticamente dovremmo chiamare aeroporto dove la gente applaude non solo dentro il velivolo ad atterraggio avvenuto, ma pure da fuori quando vede avvicinarsi l’aereo: non era una truffa da televendita, questo posto esiste davvero. 25 € è il prezzo per la mia vita di fuga in sola andata a distanza di dieci giorni. Accettabile. Al ritorno ci penserò, mi dico.
In realtà a Londra sono già stato almeno un paio di volte. Ci vado più per affetto e voglia di respirare aria nuova che per scoprire. Dopo un anno nel caos nella capitale italiana, dopo due settimane di afa padana, ho solo bisogno di ricordarmi che c’è un mondo. E che è là fuori.Sorvolo la manica divorando il nuovo libro di Claudio Rossi Marcelli (“E il cuore salto un battito”). I battiti che saltano sono i miei. Sento che è tutto perfetto. Sono partito da solo. Per una volta ho trovato il coraggio. A terra mi aspettano mio fratello e un mio carissimo amico: lavorano parecchio. E’ martedì. Avrò un sacco di tempo per me.
A Stansted, che come da tradizione Ryanair è situato a circa 50 chilometri dalla tua meta reale, l’aria è tagliente. Luglio è ben lontano, intrappolato nell’alta pressione del Sud Europa. Improvvisamente i miei shorts e la mia maglietta diventano inadeguati. Dietro gli occhiali da sole gli occhi si fanno perplessi: e ora che si fa? Come impiego questa settimana?
Da questo momento è tutta vita.Quel che resta del mio viaggio a Londra è la consapevolezza che non è stato affatto il solito viaggio a Londra. E’ stato, piuttosto, una ricerca continua del sale della vita. Vi voglio elencare qui dove ho avuto la fortuna di trovarlo sperando che possiate provare anche voi le stesse sensazioni.
Attivato l’abbonamento settimanale sulla Oyster Card alla non del tutto modica cifra di 37£ (circa 50 €) sono partito. Un pomeriggio l’ho passato divorando quel maledetto e magnetico libro che ho iniziato in aereo. Emozionandomi. Commuovendomi. Ridendo. Tutto questo comodamente sdraiato al sole all’ombra del Big Ben, nei giardini di Westminister. Un giorno di pioggia intensa l’ho passato al Victoria and Albert Museum. Passeggiando tra improbabili e secolari opere dell’arte cinese fino alle più familiari realizzazioni gotiche col mio amico Carlo, ci siamo raccontati i mesi di vita che ci eravamo persi. Museo nel museo. Bellezza nella bellezza. Siamo poi fuggiti in tempo per evitare l’invasione: appena il turista medio londinese realizza che quello scroscio di pioggia non è momentaneo si catapulta nei musei più famosi (che sono gratis, ndr) e il tuo rifugio di pace si trasforma nell’equivalente della stazione metro Termini all’ora di punta. Che fare? Il clima è da the. Lo assecondiamo e ci rinchiudiamo in una casa privata che ospita una collezione ricchissima e molto interessante: The Wallace Collection. Non c’è quasi nessuno. E dopo aver vagato tra i corridoi ci rifugiamo nella corte interna dove coppie di signore e signori inglesi sorseggiano il loro the. Sul tetto di plexiglass sopra di noi il cielo è attraversato dalla perturbazione atlantica. Continua a piovere.
Una mattina, invece, avevo voglia di vedere come sono i londinesi quando lavorano. Mi tuffo a piedi al punto più estremo del lungo Tamigi e li osservo camminare, correre, indaffararsi. A forza di guardare le vite degli altri arrivo fino in centro. Mi sento gli occhi pieni di storie. Pranzo “con loro” ai St. Catarine Docks, una sorta di boat club lungo il fiume di architettura vittoriana. Sono circondato da riunioni e progetti origliati.
Un pomeriggio cammino ascoltando musica per Hyde Park finché vengo sorpreso da un temporale, un altro pomeriggio, invece, mio fratello mi trascina al più grande centro commerciale di Inghilterra: Westfield. E mi accorgo che non è altro che una piccola grande Little Italy. Il sogno dell’emigrante italiano spesso finisce (o naufraga) qui, tra vetrine luminose e pizzerie raffazzonate in mezzo a un’architettura esageratamente avvenieristica. Si conoscono tutti. E scopro che mio fratello ne conosce molti. Ascolto le loro storie. Molti alla fine l’inglese ancora non l’hanno imparato. In spiccato accento napoletano mi raccontano che si trovano sempre a vivere tutti insieme. Il ghetto degli italiani. La fuga costretta. Mi sento improvvisamente molto fortunato nell’essere lì solo di passaggio.
Una sera, ancora, naufrago con mio fratello nella marea umana di Camden Town. Troviamo finalmente un tavolo e osservando i turisti che acquistano improbabili paccottiglie ci confidiamo gli anni che ci siamo persi.
Una mattina, infine, decido di prendere i mezzi e girare un po’ a caso. O forse non lo decido nemmeno. Ho solo voglia di leggere, di guardare fuori, di pensare. Scendo nella metro e mi metto a scrivere nell’attesa di arrivare a destinazione.
Sopra di me, fuori dal tunnel, scorre la vita instancabile di Londra. La metro è uno degli ultimi rifugi rimasti schermati dalle linee telefoniche.
Alla mia sinistra una ragazza sulla trentina mangia un uovo sodo con le mani. E’ appena uscita dalla palestra. Sul volto le leggi soddisfazione e stanchezza. Si controlla i muscoli del braccio di soppiatto. Alla mia destra una ragazza dai lineamenti irlandesi stringe la borsa al petto. Ogni tanto socchiude gli occhi. Ha i capelli perfettamente acconciati e lo sguardo concentrato sul vuoto. Potrebbe tranquillamente essere ancora in ufficio.
Davanti a me una ragazza africana legge il London Evening Standard. Sul braccio sinistro ha un tatuaggio fatto di brillantini. E poi c’è chi ancora indossa al collo il badge dell’ufficio. Chi gioca incessantemente con il telefono. E chi ha appena finito un libro di cui si è innamorato – come me – e sente il bisogno irrefrenabile di continuare a leggere qualcosa, per esempio le vite degli altri.
Nel frattempo la ragazza dell’uovo sodo ha estratto dei test di medicina. Concentratissima sbarra una casella corrispondente alla Vena Cava. Quella con i capelli perfetti, invece, ha estratto il telefono e come sfondo ha David Gandy, il modello delle pubblicità di Dolce&Gabbana, completamente nudo.
Scendo. Salgo le scale. Mi tuffo nelle vie di Notthing Hill. Il viaggio continua.
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