Parigi, Hemingway e la nostalgia
Esordire in una rubrica dedicata alla letteratura con Hemingway è un po’ un cliché, ammettiamolo. Citarlo tra le ispirazioni letterarie è ormai il marchio di fabbrica di quella categoria di scrittori esordienti che vogliono forgiarsi del titolo di “rivisitatore contemporaneo di classiconi insuperabili” (citiamo tra i maggiori esponenti Dan Humphrey di Gossip Girl e Fabio Volo), e non c’è molto che non sia già stato detto sui suoi dialoghi scarni o le sue grandi imprese. Io però non tratterò di battute di pesca al marlin a mani nude o regole dell’iceberg, ma di nostalgia condita da un’abbondante dose di autoconvincimento.
Se avete visto Midnight in Paris di Woody Allen, siete abituati ad immaginare Hemingway come un bizzoso beone che scorrazza per Parigi alla ricerca di donne da conquistare, bottiglie da svuotare o bottiglie da sbancare. Festa Mobile è una cronaca di quegli anni, suddivisa per capitoli che descrivono momenti della vita parigina di Ernest, la sua prima moglie Hadley e loro figlio Bumby. Bevute ce ne sono, certo. Feste, anche. Ma il tutto è pervaso da una malinconia che lascia ben poco spazio alla sbruffoneria: l’autocompiacimento dello scrittore illuminato sfuma nei panorami autunnali della riva della Senna, e il personaggio Hemingway sbiadisce di fronte all’uomo infreddolito che si rifugia in un Cafè per sfuggire al freddo del suo appartamento spoglio.
Parigi è il luogo “dove essere molto poveri e molto felici”: per compensare i pranzi saltati a causa del misero bilancio familiare basta un croissant o un bicchierino di assenzio. L’ispirazione è latente? Basta passeggiare tra gli alberi in fiore. Il successo stenta ad arrivare? Nessun problema, una ricca mecenate ti attende per lanciarti tra le stelle del post-modernismo, e presentarti amici influenti. Parigi ha una soluzione per tutto, è un fertile orticello di leggende letterarie.
Eccomi quindi cullare per mesi l’immagine di un giovane Hemingway che scrive con una matita consumata le sue cronache parigine in un fumoso caffè, salvo poi scoprire leggendo la sua biografia (che potrebbe comparire tra le fonti letterarie degli sceneggiatori di Beautiful) la verità: il nostro Ernest scrisse Festa Mobile in Idaho, negli ultimi anni prima di morire, tanto che uscì postumo a cura dell’ultima moglie Mary.
Ecco allora che l’Ernest della mia immaginazione invecchia in modo lento ma inesorabile fino a diventare un sessantenne consumato da acciacchi e depressione, che dopo tre divorzi e diversi tentativi di suicidio cerca di tornare almeno su carta ai suoi vent’anni. Poco importa che nelle lettere da espatriato insultasse Parigi, o si dichiarasse depresso. Parigi è la culla della sua giovinezza, lo scrigno delle sue aspirazioni letterarie: le strade sporche si mutano nei ciottoli su cui Bumby ha imparato a camminare, i francesi maleducati sorridono benevoli, l’aria puzzolente si riempie del profumo delle baguette appena sfornate.
E’ pur vero che nel primo capitolo il buon vecchio Ernest un indizio ce lo aveva dato: in quel caffè fumoso scrive un racconto sul Michigan, osservando come riesca a descriverlo al meglio pur trovandosi a Parigi. “Magari via da Parigi potevo scrivere di Parigi, così come a Parigi potevo scrivere del Michigan (…) in certi posti potevi scrivere di queste cose meglio che in altri. Era quel che si dice un trapiantare se stessi, pensavo, e poteva essere necessario per gli esseri umani così come per ogni altra specie di cose in crescita.”
A me piace pensare che quel sessantenne stesse cercando di trapiantarsi per un’ultima volta, prima della resa definitiva all’inverno: forse per rigenerarsi e crescere ancora un po’, o forse per appassire con la memoria di un luogo in cui un tempo, nonostante tutto, era stato molto povero ma molto felice.
Ottavia Mapelli
Titolo: Festa Mobile
Anno: 1964
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