La cotogna di Istanbul | Paolo Rumiz

La cotogna di Istanbul | Paolo Rumiz

Qualche sera fa, la musa ci ha colto al Surfer’s Den a parlar d’armi e di eroi.

Con @Giulia Galimberti e @Jay Bargiani si discuteva la forma e i temi dell’Epica. Nell’era del frammentario, dell’incompiuto e dell’informale, la realtà diventa “epica” solo in qualche parabola da giornalista, le masse sono “popoli” solo nelle fantasie drogate dei politici, gli uomini sono “eroi” quando fanno l’ultimo passaggio giusto prima del goal.

Cosa è dunque epica? Ritornando con la testa sulle antologie delle medie, abbiamo raccolto qualche parola chiave, e alla terza Pimm’s Cup abbiamo prodotto suggestioni definitive: Epica è quando il ritmo dell’oralità incontra l’epifania solenne della parola scritta; è là dove l’episodio storico si trasforma in tradizione, memoria invisa e condivisa; dove l’evento originario e creativo diventa profezia; è quando il sentimento pop orizzontale, intimo, immediato, passionale ma radicato, incontra la dimensione verticale, oggettiva, eterna, leggendaria e sempre vera del Logos.

La Cotogna di Istanbul, di Paolo Rumiz (Feltrinelli, 2010), ballata per tre uomini e una donna, è tutto questo.

Lo vogliamo dimostrare, lucidando il dettaglio di tutti gli incroci che abbiamo disegnato: ritmo e parola, episodio storico e tradizione, origine e profezia, pop e Logos.

 

RITMO – Passo lungo di pianura

Tutto il racconto è sviluppato con endecasillabi. E’ il ritmo del “passo lungo di pianura”, quello dei viaggi più lenti e vissuti.

La storia è stata vissuta in prima persona dall’autore, come racconta lui stesso, e l’intimità che la caratterizza non le ha mai permesso di diventare prosa. L’endecasillabo è la forma che più permetteva al racconto di rimanere vivo e in continua evoluzione, e sfuggire all’“atto notarile miserabile” della scrittura.

 

PAROLA – Epiteto, Similitudini e Catabasi

Tutti i canoni estetici dell’epica sono replicati: epiteti (“Vuk soldato-biscazziere, colui che troppe donne aveva amato”, “Maşa la bella dai femori lunghi”, “Max ingegnere di Vienna”), similitudini (Colori ambigui sono il giallo e il nero / il bene e il male contengono entrambi / il nero per esempio è anche il colore / della donna del Sud, la grande madre. / E’ lei o non è lei che custodisce / il fuoco giallo, simbolo di vita?) e l’episodio immancabile della discesa agli inferi (Discese lento come un palombaro / lungo le pozze di fango gelato/ fluttuò nella foschia, entrò nel mare / le prime case gli vennero incontro / sembravano barriera corallina / sentì risate di bimbi scomparsi / martellare di maniscalchi estinti / si accorse che davanti a un grattacielo / tutti i citofoni s’eran svegliati / e tutti insieme gridavano “Max / che vieni a fare nel mondo dei morti?”)

 

EPISODIO STORICO – La Guerra in Bosnia

Tutta la vicenda si arrotola sugli avvenimenti e le conseguenze della guerra in Bosnia. Rapidissimamente, la storia è  questa: Maşa è innamorata di Vuk. Alla vigilia delle nozze, Vuk ammazza una donna in un momento di passione ed è messo in carcere. Le nozze sono rimandate, ma Maşa promette amore eterno a Vuk. Lei però deve dare frutti, e cercherà dunque un marito a termine fino a quando Vuk uscirà di galera. Trova l’uomo, che accetta l’incarico a tempo determinato, e ha due figli con lui. Dieci annidopo comincia la guerra, e tutti i carcerati sono liberati per essere inviati al fronte. I due si amano per qualche mese. Vuk viene ucciso da una granata mentre si trovava a casa sua. Maşa si chiude nella casa di Vuk e ne diventa la custode, mentre a Sarajevo si diffonde il mito della sua persona. A questo punto subentra Max, che la incontra e se ne innamora perdutamente. Non si dichiara e se ne torna a Vienna. Lei scompare per tre anni. Quando ricompare i due si ritrovano e vivono la loro storia di amore e di morte.

 

TRADIZIONE – Sevdalinke

Lei arrivò con il nero colbacco

occhi profondi e dolci come laghi

e quando sopra il tavolo rimasero

soltanto due bicchieri

di vodka fredda pieni fino all’orlo

lei gli pose, fatale, la domanda

se aveva mai udito la sevdalinke

le canzoni d’amore della Bosnia.

Tutta la storia è impregnata della nera Sevdah (guardatevi assolutamente Vinicio), bile amara del fegato, giallo distillato di  veleno, che da vita al genere musicale della Sevdalinke (stessa radice del portoghese Saudade), musica da taverna, che ha il suo centro geografico nel borgo di Mostar, in Bosnia.

 

ORIGINE E PROFEZIA – Žute dunje iz Stambola

Antica canzone bosniaca venuta dalla Turchia, “Žute dunje iz Stambola” dà inizio e fine al racconto.

“Che titolo?” le chiese, e allora lei

rispose “Zute dunje”, che significa

gialle cotogne venute da Istanbul

una di quelle cose disperate

quei distillati di malinconia

che il Danubio soltanto sa produrre

quando si accosta alle negre montagne

che i Turchi dominarono per secoli

con il pugno di ferro del visir.

La canzone che Maşa canta a Max narra di due innamorati, costretti alla separazione. Lei si ammala. Unico rimedio alla malattia è la mela cotogna di Istanbul (piccolo inciso di odore biblico: il bosniaco “dunje”, che è il frutto della mela, è certamente tratto dal turco “dunya”, che vuol dire mondo). L’innamorato parte alla disperata ricerca del frutto, ma non riesce a tornare in tempo. La storia è vissuta in prima persona sia dai protagonisti, che, all’origine, da Paolo Rumiz. Lui stesso ascoltò la canzone. Sulle piazze affollate di Istanbul gli si presentò davanti un venditore di mele cotogne. In quel momento seppe che per la donna che gli cantò la canzone non ci sarebbe più stato niente da fare.

 

POP – L’innamoramento di Max e Maşa

Restò in silenzio Max a contemplare

quegli occhi senza fondo nella notte

e non avrebbe scambiato quell’attimo

di sguardi d’innocenza con l’amplesso

di una regina o di un’imperatrice.

E siccome la vodka lavorava

uscendo dal locale chiese a Maşa

di offrirsi per un ballo nella piazza

deserta con la neve che scendeva[…].

Scende la lacrimuccia. Neanche il Will Smith di Pavia avrebbe fatto meglio.

 

LOGOS – Il Danubio e Il Bosforo

Tutta la Storia scorre sul fondo del Bosforo e del Danubio, la nebbia infuocata del Logos che svegliò i filosofi di Alicarnasso rimane impigliata nelle guglie delle moschee di Istanbul e Sarajevo, nei vicoli impolverati marchiati dai mortai e pregni di sangue umano. Aria pesante, gravata dagli aliti di milioni di generazioni sovrapposte. Rosso di un disordine assestato, di un ordine divino, di sofferenza cantata e di passione taciuta.la-cotogna-di-istanbul

“C’era un lamento lungo e disperato

simile a ciò che un tempo aveva udito

sulla strada del Caucaso ventoso

a Diyarbakir dalle nere muraglie

che chiude l’orizzonte alla Turchia.

Diceva “aman aman”, che vuole dire

l’angoscia del pastore sugli spazi

piallati dalla neve in Anatolia

l’urlo di serbi, di armeni o di ebrei

cacciati dalle terre loro antiche

la paura del suddito indifeso

davanti all’occhio arcigno dello zar.

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2 COMMENTS

    • La donna è Maşa, i tre uomini sono Vuk, Duşko (il marito a termine) e Max.
      Oppure la donna è Sarajevo, gli uomini sono Bosnia, Croazia e Serbia.
      O magari la donna è la canzone, Logos che si rinnova, e gli uomini sono Cristianesimo, Islam e Ebraismo.
      Anzi, la donna è Giulia Galimberti, gli uomini siamo io, te e Jay Bargiani.

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