Se per Itaca volgi il tuo viaggio
La prima volta che ho visto Into The Wild (Sean Penn, 2007) non avevo nemmeno diciott’anni, era un sabato sera qualunque del penultimo anno di liceo, di quelli passati davanti alla tv a casa di amici, a lamentarsi dell’apatia di provincia. Ancora non sapevo che sarebbe diventato uno di quei film che avrei rivisto fino a conoscerne i dialoghi a memoria, di quelli che quando i titoli di coda fanno capolino sullo schermo senti la voglia di vivere che ti straborda nelle vene. Christopher McCandless è un giovane neolaureato della Georgia, figlio disilluso di una famiglia perbenista degli anni ’90. Traendo ispirazione letterale da “La vita nei boschi” di H.D. Thoreau e al grido di “Jack London è il re”, Christopher (ribattezzatosi Alexander Supertramp) parte alla ricerca di una vita vera, lontana dal convenzionalismo sociale, dalle gabbie di un finto moralismo in cui regnano i beni materiali e le qualifiche universitarie.
Ma chi è Alexander Supertramp? Un eroe o un codardo? Potete trovare la risposta nelle note della colonna sonora del film, composta da Eddie Vedder, la cui voce spesso sostituisce i pensieri di Alex, a partire da “society, you’re a crazy breed / I hope you’re not lonely without me” (società, sei una razza folle / spero tu non ti senta sola senza di me). Sean Penn ci accompagna in tutte le tappe del viaggio di Alex nelle terre selvagge e, se prestate attenzione, noterete che non si tratta di una partenza, ma di un ritorno. Alex incarna quell’anticonformismo che si cela dentro ognuno di noi, più o meno soffocato dalle convenzioni sociali in cui siamo quotidianamente immersi; è un buon modello di vita per chi sceglie di mettersi alla prova con ciò che non conosce regole, che non segue impostazioni, che ti fa respirare a pieni polmoni, che ti trasporta Into the Wild, appunto. Eppure Alex non sta fuggendo, è soltanto alla ricerca di se stesso, della sua vera essenza: Into the wild è un viaggio di ritorno verso casa, metaforicamente intesa.
Ed è esattamente dal ritorno verso casa che ha inizio il romanzo di Luigi Malerba: Itaca per sempre, una narrazione che riprende la celeberrima opera di Omero a partire dalla fine, da quando Ulisse approda sulle coste di Itaca. Eppure l’eroe omerico ritrova un’isola diversa da come l’aveva lasciata vent’anni prima, e Malerba può soltanto immaginare il senso di estraniazione che deve aver provato l’antico re nel vedere la propria casa invasa dai proci, la propria terra abbandonata e incolta. Il ritorno, soprattutto dopo una lunga assenza, non è quasi mai l’approdo ad un porto sicuro, solitamente è il mero riscontro con il luogo di partenza, inevitabilmente mutato nell’arco di tempo che abbiamo trascorso lontano. “Mi guardo intorno smarrito”- afferma l’astuto Odisseo – “perchè non riconosco né la costa sassosa, né questa terra arida ricoperta di alberi spogliati dai venti marini, né l’orizzonte delle montagne, né questo cielo colore del mare”.
È paradossale vedere il leggendario re di Itaca, colui che è sopravvissuto alla Guerra di Troia e che ha superato altri dieci anni di temibili insidie, restare disarmato e spaurito dinanzi a quel nido familiare che gli si rivela incredibilmente ostile. Itaca per sempre non racconta soltanto il ritorno in patria di un eroe, ma il ritorno a casa di un uomo come tanti altri, ritratto nel dialogo con la propria moglie, nella più umana psicologia di una coppia di sposi che vanno ritrovando se stessi. Malerba ci insegna che il tempo non trascorre uguale in ogni luogo, che non potremo mai conoscere realmente ciò che avvenuto in nostra assenza dall’isola. Eppure, il viaggiatore non si deve perdere d’animo, poiché “Il dono d’Itaca è il viaggio che fu bello / Senza di lei, per te, quale cammino?” (Kavafis, 1911).
Del resto, se intendiamo il ritorno come l’imprescindibile legame tra passato e presente, non possiamo fare a meno di guardare alla storia della nostra nazione, come quella abilmente descritta da Melania Petriello nel libro Al Mio Paese. Pur trattandosi di una narrazione, la sorte di questo libro non si è fermata alla carta stampata: Al Mio Paese si è rivelato presto un percorso culturale dedito alla rilettura dell’Italia con diverse lenti d’ingrandimento, destinato a diventare uno short film diretto da Valerio Vestoso, un contest redazionale promosso da Repubblica Scuola e, infine, uno spettacolo teatrale dall’omonimo titolo, diretto da Paolo Vanacore. In ogni sua declinazione, dunque, l’opera di Melania Petriello è un tributo al ritorno, un invito a ritrovare il coraggio di cambiare, alla riscoperta delle potenzialità di un Paese che sembra aver smarrito la retta via dantesca.
Eppure il ritorno è anche un gesto inaspettato, una ricomparsa in sordina, come quella mattina di gennaio in cui il mondo si è svegliato ritrovandosi un nuovo disco di David Bowie. Beffandosi della provocazione dei Flaming Lips che avevano inciso un pezzo intitolato “David Bowie sta morendo?”, ecco che il Duca Bianco ritorna al posto che gli spetta da sempre, in vetta alle classifiche con il suo nuovo album The Next Day. A detta di molti, l’autore di “Heroes” non ha perso la patina dorata di musicista che lo contraddistingue da quando si è affacciato al mondo della musica, il genio inglese è tornato sul trono, mettendo a tacere i più diffidenti. La copertina del nuovo album è emblematica: Bowie cancella il passato tracciando un rettangolo bianco sulla celebre immagine di “Heroes”, presenza imprescindibile nella storia del cantante, eppure sovrastata dal titolo “The Next Day”, ad indicare lo sguardo rivolto al domani.
Sorrido al pensiero che Alexander, che fosse Supertramp o meno, al momento della resa dei conti, del confronto inevitabile con se stesso, dev’essersi domandato, alla stregua del re di Itaca, “Where are we now?” come recita l’ultimo singolo di Bowie. Perdonatemi, ma io non posso che pensare che, dopo un momento destabilizzante, colui che ritorna sia il padrone assoluto di ciò che aveva lasciato, conscio del bagaglio di esperienze maturate nell’assenza: non sappiamo dove siamo, forse non conosciamo nemmeno la direzione intrapresa, ma we can be heroes… even the next day.
condivido appieno ogni considerazione e….sono molto orgogliosa che l’autrice di questo editoriale sia davvero mia figlia! ( più di parte di così ,voi direte,ma non posso esprimermi diversamente stavolta!)
È difficile trovare persone competenti su questo argomento, ma sembra che voi sappiate di cosa state parlando! Grazie
Grazie a te per il commento! Non so se siamo davvero competenti: proviamo a dire la nostra e siamo felici quando ciò che pensiamo incontra la condivisione di altri. grazie di nuovo per averci scritto
[…] viaggio è diretto verso l’ideale meta della spiritualità e della civilizzazione europea, Bisanzio, […]