Hunger, Steve McQueen

Hunger, Steve McQueen

Il 5 Maggio 1981 a Long Kelsh, nel carcere “Maze”, in uno degli H-Blocks di recente costruzione, muore Bobby Sands, a seguito di uno sciopero della fame durato sei settimane. Bobby fu il primo di 9 morti per la seconda protesta carceraria della fame, che seguiva la protesta “delle coperte” e la protesta “del sapone”, volte ad ottenere lo status di “prigionieri politici”, negato dal Governo di Margaret Thatcher. Bobby muore da terrorista e da membro del Parlamento Britannico, all’apice degli scontri fra il Governo e l’IRA, gruppo terroristico (o partigiano?) che vuole la liberazione completa dell’Irlanda dal Governo Inglese.

Il film Hunger narra gli ultimi mesi di vita di Bobby Sands, così come altri film prima di lui hanno fatto (su tutti il pietistico buonismo di Nel Nome del Padre). Steve McQueen, però, affronta l’argomento dal suo particolare punto di vista: il corpo. Il regista, infatti, come poi riproporrà nuovamente nel suo secondo lungometraggio Shame, parte dal corpo, dalla componente più fisica e materica, per raccontare la sua storia. Conosciamo i personaggi attraverso il loro corpo, non attraverso le parole: le nocche incrostate di sangue del secondino e il corpo magro e nudo dei detenuti che non vogliono mettere le divise carcerarie sono le prime scene che ci vengono mostrate. Il viso, poi, ci spiega la paura dei giovani detenuti, troppo giovani, parti di un meccanismo troppo grande per loro, ma comunque risoluti nella loro giustificata paura.

Le parole sono altrove. Altrove è lo Stato, di cui sentiamo solo le frasi fuori campo o ripetute alla radio. Il corpo dello Stato è assente, non pervenuto. E forse anche poco interessante. La lezione di Pasolini è digerita. I corpi degli uomini assumono valore assoluto di protagonisti. Anche la Legge, emanazione del Governo, è mostrata attraverso lo sguardo rassegnato del secondino e il viso tirato (e poi rigato di lacrime) del giovane militare, troppo giovane, parte di un meccanismo troppo grande. I corpi sono gli stessi, sembra dire, le persone sono identiche da una parte e dall’altra delle sbarre. Cosa li divide, allora?

Al centro della vicenda è posto Bobby Sands, interpretato dal bellissimo e algido Michael Fassbender, attore feticcio di McQueen (e protagonista anche di Shame), che usa il suo corpo come un pittore userebbe una tela: è il luogo del racconto. Lo vediamo malmenato, sanguinante, lavato a forza. Lo seguiamo nel progressivo deperimento organico che lo condurrà a morte. A Sands sono affidate le uniche parole vere di tutto il film, poste, anzi incastonate, esattamente al centro del film, precedute dal silenzio dell’immobilità della situazione e seguite dal silenzio dell’ineluttabilità. Il film viene così spaccato in due dal dialogo che Bobby intrattiene col cappellano del carcere, interpretato da Liam Cunningham. Dove le parole diventano protagoniste, la telecamera si ferma in un lunghissimo pianosequenza immobile, che inquadra da una certa distanza i due dialoganti. Si tratta di un vero e proprio duello a parole, che mette di fronte due personalità e due opinioni diametralmente opposte e inamovibili. Al loro dialogo è lasciata ogni giustificazione, ogni opinione sui fatti accaduti e che accadranno. Non si parla di Politica, ma si dibatte di temi grandi, della vita e delle proprie convinzioni, e di come la Politica riassuma questi temi. Dopo oltre 15 minuti di immobilità fisica e dinamismo dialettico, la telecamera si sposta sul viso tirato e determinato di Fassbender, per la sua arringa finale. Null’altro può e deve essere detto.

Dopo, la telecamera torna a muoversi con nervosismo, segue gli spasimi e le contrazioni violente di un corpo defedato, per poi pacarsi e rallentare la ripresa su un corpo che non ha più forze neppure per i movimenti più semplici e che finirà avvolto in un lenzuolo di ospedale, che gli fa da sudario.

McQueen non dà giudizi e non usa pietà. Lo spettatore può decidere se a morire è un patriota o un terrorista (ben sapendo che la differenza, spesso, è data dal vincitore): a morire è un uomo, il corpo di un uomo. Al regista non interessa la politica, se chi guarda non conosce bene i fatti dovrà documentarsi, l’intenzione primaria non è fare informazione. Vengono solo mostrati gli uomini nel loro affannarsi, le loro decisioni e le loro conseguenze. E il corpo. Unico campo da gioco della crudele partita a scacchi. Bobby Sands, l’uomo, prima del patriota-terrorista, si fa immensa rappresentazione dell’umanità, si fa mito e epica moderna. Il suo corpo viene scolpito, come vennero scolpite le statue delle divinità greche, con la stessa valenza; e infine colpito e distrutto. Restano le idee, lo spirito, restano le parole: Tiocfaidhárlá. Al regista però, come già detto, questo non interessa.

Alessandro Pigoni
Titolo: Hunger
Regia: Steve McQueen
Usicta: 2008
Durata: 96 minuti
Interpreti: Michael Fassbender, Liam Cunningham, Stuart Graham, Brian Milligan

Anche tu puoi sostenere SALT! Negli articoli dove viene mostrato un link a un prodotto Amazon, in qualità di Affiliati Amazon riceviamo un piccolo guadagno per qualsiasi acquisto generato dopo il click sul link (questo non comporterà alcun sovrapprezzo). Grazie!

2 COMMENTS

Leave a Reply