Bullshit Jobs or bullshit books?

Bullshit Jobs or bullshit books?

Una lettura critica di Bullshit Jobs di David Graeber, un saggio radicale sulla nostra società e il suo rapporto con il lavoro. Spunti illuminanti (con alcuni limiti) per ripensare il mondo del lavoro ed il capitalismo

Bullshit jobs

Bullshit Jobs è un saggio di David Graeber del 2018, ma già qualche anno prima, in un articolo pubblicato sulla rivista radicale Strike! (On the Phenomenon of Bullshit Jobs), lo stesso Graeber ipotizzava l’esistenza di lavori senza senso innescando un acceso dibattito internazionale sull’argomento. Del resto siamo negli anni in cui il ruolo sociale del lavoro è sotto attacco da più fronti, penso ad alcuni testi di Byung-chul Han o alla great resignation che sarebbe iniziata di lì a poco. In questo contesto, il libro Bullshit Jobs riprende l’ipotesi dell’articolo, confermandola (e fin qui ce lo si poteva aspettare), ma soprattutto approfondendone cause e conseguenze.

Parlandone con i colleghi in ufficio ho riassunto scherzosamente Bullshit Jobs come “la storia delle nostra vita”, trovando nelle loro manifestazioni di assenso conferma che il rapporto con il proprio lavoro è un tema centrale nelle nostre vite (se non altro nella mia “bolla aziendale”), che tale rapporto non è esente da conflittualità (eufemismo) e, infine, che la ricerca di senso nel proprio lavoro non è affatto un aspetto secondario. Proprio attorno a queste tematiche si sviluppa Bullshit Jobs, e già per il fatto di riguardarci così da vicino il saggio di Graeber merita di essere letto.

Divergenze tra il compagno Graeber e me

Perché parlo di “bullshit books”? In primis perché se avessi intitolato questo pezzo “Una recensione di Bullshit Jobs, di David Graeber”, avrei probabilmente attirato la metà dei lettori. Battute a parte, credo che il saggio contenga alcuni elementi abbastanza friabili che, pur non invalidando le conclusioni di Graeber, ridimensionano la portata del fenomeno dei bullshit jobs o, se non altro, che suggeriscono un approccio cauto al testo.

David GraeberPrima di arrivarci, consentitemi un breve inciso su chi è Graber e cos’è un bullshit job.

Graeber è stato un antropologo e attivista, tra i riferimenti del pensiero anarchico contemporaneo.

Ha insegnato a Yale e alla London School of Economics, solo per citarne un paio e, come attivista, il suo nome si lega al movimento Occupy Wall Street.

Quest è la sua definizione di bullshit job:

Un’occupazione retribuita che è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così

E già qui c’è una prima, importante, ambiguità: la soggettività, ovvero che il lavoro senza senso (una possibile traduzione di bullshit job) deve essere considerato tale da chi lo fa, tant’è che la tesi del libro si basa su testimonianze personali che Graeber ha raccolto e analizzato.

La necessità metodologica è comprensibile, nel senso che a giudicare se un lavoro sia bullshit può essere o chi lo svolge o chi lo assegna ed è abbastanza inverosimile pensare che un’azienda ti venga a raccontare quanti dipendenti sono parcheggiati in mansioni insensate e perché. D’altra parte però, affidarsi ai lavoratori sconta il fatto che un lavoratore scontento possa tendere a giudicare insensato ciò che fa e, in effetti, leggendo alcune testimonianze riportate nel testo, notiamo che si sconfina spesso nella lamentela, rivelatrice non tanto di un lavoro che non ha senso quanto piuttosto di un ambiente lavorativo malsano. Quest’ultimo è un problema importantissimo, ma se lo scopo è interrogarsi sul senso di una certa mansione è bene tenere le due cose ben distinte, almeno a mio avviso.

La soggettività risente poi del metro morale individuale. Ovvero, se non sono esattamente il tipo di persona che aiuta gli anziani ad attraversare la strada, potrei essere perfettamente a mio agio lavorando in un’azienda che produce armi, magari fregandomi le mani allo scoppio di un conflitto in quanto business opportunity. Questo stesso lavoro potrebbe invece risultare “dannoso” (dunque bullshit, stando alla definizione di Graeber) se avessi un senso morale più acuto. Un dato lavoro può dunque essere un bullshit job o meno a seconda di chi si troverà a farlo e giudicarlo, complicando sensibilmente l’analisi.

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Inoltre, DOVE SONO I NUMERI? Lo so che è la deformazione professionale a parlare per me, tuttavia quando si studia un certo fenomeno la sua quantificazione ha un peso, anche solo per stabilire un ordine di priorità tra gli infiniti casini che ci affliggono come società.

Qui Graeber si attacca sostanzialmente ad una statistica che vede un 40% degli intervistati interrogati sul proprio lavoro, percepirlo come senza senso. Statistica d’impatto, indubbiamente, ma basta una minima base matematico-statistica per sapere che sul risultato possono influire molti fattori: dove viene condotto lo studio, chi viene coinvolto, come è posta la domanda, ecc.. Questo 40% è sicuramente un punto di partenza (allarmante), mi incuriosirebbe tuttavia capire se si tratti davvero di un fenomeno dilagante o se fosse semplicemente confinato in delle nicchie sociali. La portata più o meno grande in ogni caso non sminuisce la gravità del fenomeno.

È comunque evidente che Bullshit Jobs si giochi sul piano dell’analisi qualitativa piuttosto che quantitativa, ma questo non la rende meno valida, anzi, per certi versi la avvicina alla nostra esperienza personale. La mancanza del numero e dell’oggettività statistica ci lasciano con il dubbio di non sapere se si stia leggendo di un problema concreto o piuttosto di una masturbazione intellettuale, ciononostante riconoscere il fenomeno come qualcosa di vicino a noi, vuoi perché lo si è visto, vuoi perché lo si è vissuto (personalmente posso mettere una bella crocetta su entrambe le caselle) rende la visione di Graeber valida PER NOI, cosa non da poco.

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Due noti antropologi italiani, le cui teorie hanno ispirato Graeber

Breve nota polemica: d’accordo che la scrittura di questo saggio abbia richiesto di raccogliere centinaia di testimonianze, ma era davvero necessario riportarne così tante nel testo? Sarei stato certo dell’onestà dell’autore anche leggendone solo una manciata, invece trovarmene una ogni 3-4 pagine non solo non aggiunge granché, anzi, allunga un saggio di 300 e rotti pagine che avrebbe potuto tranquillamente contarne una 50ina in meno. Ricordiamoci che il tempo del lettore è sempre poco, ed è prezioso! 

Affinità tra il compagno Graeber e me

Ed eccoci ai motivi, molteplici, per cui consiglio caldamente la lettura di Bullshit Jobs…

Su tutti, la spiegazione di perché siamo arrivati a concepire il lavoro come qualcosa di così indistinguibile dalla vita, non solo una necessità economica ma un dovere morale e, spesso, un mezzo di posizionamento sociale. Perché, apparentemente, c’è stato un mondo in cui il lavoro era saltuario, eseguito al bisogno e in cui esisteva sì l’acquisto di beni, ma senza implicare – attenzione – l’acquisto del lavoratore, che è esattamente ciò che il lavoro salariato comporta.

C’entrano la diffusione degli orologi e la morale cristiana; secondo quest’ultima l’uomo (maschio), in quanto immagine divina, replica attraverso il lavoro il tratto divino di creare.

Da ciò deriva anche il confinamento della donna nelle mansioni di cura, storicamente non retribuite; tratto tutt’altro che scomparso oggi, infatti non solo i lavori di cura sono generalmente pagati poco o niente (molti figurano come volontariato), ma la componente di cura presente in ogni mansione (un esempio di Graeber è il bigliettaio della metro che tecnicamente vende i biglietti ma il cui valore è de facto nell’indicare a Tizio quale linea prendere, nell’aiutare Caio a comprare un biglietto alla macchinetta, ecc.) passa spesso in secondo piano e logicamente non viene remunerata. Per non parlare, ovviamente, della partecipazione femminile alla forza lavoro.

Fermiamoci un attimo a pensare all’effettivo impatto sociale di un lavoro e alla sua remunerazione, noteremo (o meglio, Graeber nota) una proporzionalità… inversa! Gli addetti alla metropolitana ad esempio: senza di loro il sistema dei trasporti sarebbe paralizzato, eppure la loro paga è probabilmente inferiore a quella di molti middle manager il cui lavoro ha un impatto “reale” di molto inferiore.

Ora, le cose non stanno esattamente così, nel senso che l’output del middle manager sarà probabilmente meno “immediato” da percepire, ma non per questo minore, senza contare il fatto che il suo stipendio remunera un’istruzione e un expertise “superiori” rispetto a quella dell’addetto alla metro – scusate le tante virgolette, ma quando ci si addentra in questi discorsi ogni parola diventa scivolosissima! Non prendiamo dunque quella di Graeber come una verità assoluta, ma è innegabile che trovi applicazione in diverse situazioni. Si tratta comunque di uno spunto molto stimolante, del resto alla saggistica (e alla letteratura in generale) chiediamo questo: di penetrare la realtà da angolazioni diverse rispetto a quelle cui siamo abituati.

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Interessante anche la discussione sul perché fare bullshit jobs ci causa disagio e malessere. Qui Graeber chiama in causa la psicologia e in particolare la frustrazione di non essere “agenti causali”.
Se pensiamo che la gioia più istintiva, quella del bambino, sta nel capire di avere un impatto sulla realtà, ad esempio spostando un oggetto e scoprendo che è il proprio gesto a farlo muovere, possiamo immediatamente immaginare la frustrazione derivante dal fatto che il proprio lavoro non abbia un impatto concreto nel reale: l’effetto di un lavoro senza senso è per definizione nullo o inutile.

Rispunta peraltro anche un po’ di marxismo quando si parla di lavoratore alienato dal frutto del proprio lavoro e un pizzico di Marx non fa mai male!

Infine, sempre nella categoria degli stimoli intellettuali, c’è la sua proposta politica anti bullshit jobs, ed è il reddito universale.

Scopro le carte: considero il reddito di cittadinanza (ovvero la cosa che più ci si avvicina nel contesto italiano) una ciclopica porcata, ma nonostante questo le argomentazioni di Bullshit Jobs mi hanno affascinato.

Paradossalmente ne risulta che un limite del reddito di cittadinanza sia il fatto di non essere abbastanza universale!

Intendiamoci, con Graeber si vola con le ali cerate della speculazione teorica, tenendosi prudentemente a distanza dalla caldissima questione del “chi paga?”. D’altra parte, non è irragionevole pensare che un certo reddito garantito possa consentire di affrancarsi da un lavoro inutile senza poi patire la fame. Il tempo e le energie liberate potrebbero essere reinvestite nel volontariato, nella pittura ad acquerello o nello scopone scientifico agonistico, in ogni caso è probabile che l’ex lavoratore sarà più felice di quando stava in ufficio e, se il lavoro era effettivamente senza senso, anche le ripercussioni sul PIL dovrebbero essere limitate. 

Il reddito universale è la parola di sicurezza nel gioco sadomasochistico dei bullshit jobs (immagine tratta dal saggio), che sovverte il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore: quest’ultimo non ha più soffrire la fame come unica alternativa al suo lavoro insensato, e sarebbe libero di tirarsene fuori. Su scala più ampia, ciò porta alla scomparsa dei bullshit jobs.




Tiriamo le somme su Bullshit Jobs

Dunque è vero che c’è gente che paga altra gente per fare cose senza senso? In una logica capitalistica ed imprenditoriale ciò non sta in piedi: smetterei subito di pagare quelle persone e mi assicurerei un extra-profitto. Dall’altra parte c’è il capitalismo per come lo vede Graeber: una forma di vassallaggio economico in cui il denaro è una sorta di feudo dove si innestano strutture feudal-manageriali allo scopo di accaparrarselo. Ergo, dei top manager che comandano dei manager, che a loro volta comandano altri manager, almeno la metà di loro sta lì per legittimare chi gli sta sopra nonché la stessa esistenza del feudo. Una visione radicale, ma non irrealistica; probabilmente la realtà si gioca sulle sfumature tra questi due estremi.

State tranquilli, finito il libro non sono andato in azienda per erigere barricate nel mio ufficio, però che esercizio interessante quello di pensare ad un mondo del lavoro diverso!

Il capitalismo in fondo è immutabile perché ogni giorno lo replichiamo nel pensiero e nelle azioni. Forse aprirci a visioni differenti non ci porterà alle 15 ore di lavoro a settimana che teorizzava Keynes, ma può essere un inizio.

Titolo | Bullshit Jobs
Autore | David Graeber
Casa editrice | Garzanti
Anno | 2018

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