Due parole su Fiore mio, di Paolo Cognetti
Partiamo col dire che per me Cognetti potrebbe anche improvvisamente decidere di disegnare cuori sui sassi, e io subito andrei a comprarli. E io odio i cuori.
Ho preso decisioni a causa dei suoi libri, ho scelto itinerari, ho fatto letture e per ragioni del tutto imprevedibili sono finita anche per ascoltare un certo tipo di musica a causa sua e devo quindi ringraziarlo per Daniel Norgren e per Bon Iver.
Infine per colpa sua sono anche andata al cinema in un multisala, e io non vado al cinema, non ho imparato da bambina e non è mai arrivata l’abitudine da grande. Non vado al cinema men che meno ai cinema nei centri commerciali, invece sono andata e non capivo dove sedermi, io mi oriento nel bosco, non lì. Però il documentario Fiore Mio, dopo essere stato lungamente atteso, andava visto.
Sono così tanti anni che mi sembra di conversare ogni giorno con lui, di cercare nelle sue parole risposte e domande sulla natura, sulla solitudine e soprattutto sulla montagna che oramai mi sento parte di un discorso più complesso. Un sentimento di appartenenza alle Terre Alte mai completo, sempre desiderato ma nei fatti non vero, perché sono di pianura e sono (quasi) di città, e la montagna è e sarà sempre un luogo dove vado, non un luogo dove sono nata.
Ci sono rifugi che ho visto più volte di chi, uscendo di casa, ci arriverebbe con due ore di cammino, ma saranno sempre luoghi altri, dove vado per scappare e in cui sono momentaneamente ospite.
Non potrò mai dire di fare veramente parte di un territorio alpino o appenninico e mi sembra che da anni la prosa di Cognetti esprima questo eterno spaesamento, questa voglia di far parte, di mettere insieme ciò che si è imparato in città e quello che si può ogni giorno imparare nei boschi.
L’impossibilità di sopportare una vita urbana, dove anche la gentilezza sembra essere diventata un miraggio, e il desiderio di andarsene per sempre in un rifugio alle pendici di un ghiacciaio, dove forse sarà la stessa montagna a farti scendere o i montanari a respingerti in quanto forestiero.
Tutto questo per dire che mi sono recata al cinema con tutti questi pensieri in elaborazione da anni e pronta a piangere dall’inizio alla fine, come già con Sogni di Grande Nord e, ça va sans dire, con Le otto Montagne. Del resto già l’ascolto della colonna sonora del buon Vasco Brondi, con quel lungo parlato di Cognetti sull’acqua e le sorgenti, mi aveva lasciata annichilita e in lacrime. In mezzo alla gente tra l’altro.
E invece no, non si piange stavolta.
Si esce pieni di domande, e con qualche mito sfatato, anche tra quelli più granitici.
Per esempio no, il Brenta e l’Adamello non sono per forza le montagne più belle del mondo, un tentativo con la Valle d’Aosta dovrei farlo, anche solo per poi tornare più convinta sulle montagne di casa.
No, non è detto che fare i rifugisti sia il modo migliore di stare in montagna, probabilmente se si è irrequieti camminatori ed esploratori si impazzisce per l’immobilità di quel lavoro. Io l’ho provato in quella settimana da pastore. E quante volte i rifugisti mi hanno dato indicazioni sulla percorribilità dei sentieri sentite solo dagli escursionisti ma non verificate di persona perchè vincolati al presidio del rifugio?
No, chi viene dalle terre degli 8000 non porterà necessariamente con sé delle massime spirituali e degli aforismi come noi li immaginiamo.
No, vivendo in rifugio non si è custodi delle montagne, le montagne si custodiscono benissimo da sole e probabilmente a loro non interessa minimamente di quanto e come le amiamo e di quanto stiamo meglio lassù. Siamo tutti ospiti e spesso anche chiassosi.
E come non dire due parole anche su Vasco Brondi? Un altro da cui comprare cuori disegnati sui sassi. Un’altra conversazione che dura anni, ogni giorno, su temi che lentamente hanno seguito la stessa parabola, dalla folgorazione urbana e rock per Canzoni da spiaggia deturpata fino al cambio di direzione quasi folk degli ultimi anni, verso una ricerca naturalistica di fiumi, montagne, isole vulcaniche con un nuovo mantra: “fuori città, alla ricerca della verità”. Da un primo album imparato a memoria per le strade di Parma in tempi in cui non mettevo quasi più piede in montagna fino agli ultimi dischi, pieni di Appennino, di Mar Adriatico, del Sentiero degli dei, molti ascoltati camminando guidando verso l’attacco di qualche sentiero o cercando funghi nel bosco.
La collaborazione Brondi e Cognetti, frutto di una oramai lunga amicizia, tanto da trovare spesso uno ai concerti dell’altro o parti di album registrate nella baita in Val d’Ayas, non fa che potenziare il messaggio e renderlo ancora più profondo. Sapere di non ragionare sola e quotidianamente su questi temi, ma di farlo accompagnata dalle parole, dalle immagini e dalle musiche di due coetanei che, per strade non troppo diverse, si sono trovati a fare del rapporto tra l’uomo e la natura un argomento quotidiano è un grande conforto.
Mentre esco dalla sala cantando impunemente “ascoltare gli alberi” a voce troppo alta per un contesto civilizzato penso che non ho molto da dire, se non “grazie ragazzi per camminare da anni verso le Terre Alte insieme a me”.
Titolo | Fiore mio
Regista | Paolo Cognetti, Ruben Impens, Mario Marrone
Anno | 2024