Revenge: una recensione che prova disperatamente a non fare mansplaining (e forse...

Revenge: una recensione che prova disperatamente a non fare mansplaining (e forse fallisce)

Regia: Coralie Fargeat | Anno: 2017 | Durata: 108 min.

revenge movie poster

È fresco fresco nelle sale italiane The Substance, di Coralie Fargeat. Lo copriremo (forse) in futuro…ma che dico? Ne abbiamo parlato già nella nostra newsletter, il futuro da noi di SALT è ieri. Per me, invece, niente è più attuale del passato e quindi oggi vi parlo di Revenge, il primo lungometraggio di questa regista che sembra decisa a incidere il suo nome nella lunga lista di cineasti francesi che hanno qualcosa da insegnare al mondo, con la stessa determinazione con cui incide il corpo dei suoi protagonisti con tagli, escoriazioni e punti di sutura.

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Non è Brazzers

Il film inizia non troppo diversamente da un qualsiasi porno: Jen (Matilda Lutz, italiana peraltro) – bellissima, bionda, rosavestita, con occhiali fluo e leccalecca tra le labbra – raggiunge la villa del facoltoso amante dove compaiono a sorpresa anche gli amici di lui per un allegro weekend di caccia, alcol e funghetti di droga.

Sappiamo tutti come sarebbe finita la cosa su PornHub, ma qui non siamo sull’interweb e uno dei bifolchi fraintende i segnali™ di Jen che, consapevole della propria bellezza, è un faro di spensieratezza e leggerezza, desiderosa solo di godersi la vita e divertirsi: balla, beve, bacia mentre la serata passa sotto gli sguardi increduli, poi via via più lascivi, degli uomini.

Non credo di spoilerare nulla nel dire che se un film è un rape & revenge, e la parola revenge appare nel titolo, da qualche parte ci dovrà anche essere un rape. Superato quindi questo scoglio, “non ripreso” in maniera anche piuttosto brutale, il film cambia di tono, trasformandosi in un crudo survival movie costruito attorno ad una caccia all’uomo – in cui preda e predatore si cambiano più volte i ruoli – e crescendo fino ad un finale grandguignolesco che avrebbe reso fiero lo stesso Tarantino.

revenge
Non è nemmeno Mad Max

Fargeat non pare essere molto interessata a “inventare” la storia che racconta, intesa come susseguirsi di eventi, e non aggiunge nulla di nuovo a un filone narrativo che, da Timoclea a Kill Bill, è comunque variato poco. Viceversa, è la forma del racconto a diventare il perno grazie al quale far procedere la trama.

Similmente a quanto succedeva in Mad Max: Fury Road – un film che, almeno sulla carta, non sembrava voler dire niente di specificamente femminista, e che però ha alzato l’asticella per tutte le pellicole che vogliono affrontare la parità di genere, la lotta al patriarcato e la rape culture – Revenge va dritto al punto con brutalità visiva e narrativa.

La regista alterna campi larghissimi a close-up microscopici, silenzi esasperati a effetti sonori accentuati (c’è una sequenza pazzesca in cui l’unico suono è l’affanno – diverso per ciascuno dei quattro protagonisti – che rimbomba, quasi fa eco, nell’altrimenti silenziosissimo deserto). Supportata da una fotografia ipersatura che gioca con due colori principali – rosa e azzurro – presenti praticamente in ogni inquadratura, giusto per rimarcare la dicotomia di genere che la nostra società si porta dietro, Fargeat non è una che ci va giù leggero quando si tratta di metafore e alcune scelte narrative potrebbero dar fastidio se non leggendole sotto questa luce.

Cos’è quella caduta se non un secondo “impalamento” subíto dalla protagonista che metterà in moto la sua rinascita, altrettanto allegorica, sotto il segno della fenice fiammeggiante? Forse un po’ troppo massimalista? Può essere, ma è un compromesso che accetto volentieri in un film in cui tutto il resto è fatto con una maturità e competenza rare per un cineasta con soli due cortometraggi sulle spalle.

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Blu per i maschietti, rosa per le femminucce

Guardando questo film, mi sono dovuto più volte interrogare sul mio rapporto profondo col femminismo, il femminicidio e il victim blaming. Perché è innegabile che, per quanto io possa dichiararmi progressista, da maschio moderatamente bianco/etero/privilegiato, vedere un film in cui qualunque portatore di cromosomi XY sia, senza possibilità d’appello, un maiale, non è gratificante.

Poi le amiche femmine mi hanno spiegato che la mia gratificazione è, come dire, secondaria rispetto alla costante angoscia di subire violenze che loro vivono e che il disagio maggiore che la questione ha sulla mia vita è, al massimo, la sensazione di venire percepito come una potenziale minaccia se di notte incrocio la strada con una donna. Tutto sommato, un danno circoscritto solo al mio ego (che è comunque abbastanza robusto da reggere il colpo), ma che mi porta ad avere – e probabilmente così sarà per sempre – una visione parziale del problema, al punto da arrivare a farmi chiedermi se questa recensione fosse opportuna o meno.

Ma quello che, almeno credo di aver capito, Revenge vuole essere è uno schiaffo in faccia proprio a chi, guardandolo, prova a suggerire che Jen se la sia cercata. L’ostentata ipersessualizzazione della protagonista, le inquadrature fisse sul culo, vogliono essere prima di tutto una tortura provocatoria verso lo spettatore. Provano a sfidarlo, come se Jen dicesse “Si, porto gli shorts, allora? Qualche problema?”. In contrappasso, ho perso il conto delle volte in cui la protagonista punta un fucile direttamente verso la telecamera, trasformando chi guarda in un colpevole e costringendo ognuno di noi (si, mi metto anche io nella categoria) ad una costante analisi della propria coscienza.

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It was you

Revenge è un film che graffia, che provoca e che non si preoccupa di ferire i sentimenti – la gratificazione, appunto – di chi guarda. Coralie Fargeat ci costringe a fare i conti con il lato più viscerale del desiderio e del pregiudizio, invitandoci a guardare in faccia l’ipocrisia, il viscidume e il desiderio di sopraffazione nascosti nei codici del genere e della società. Se siamo a disagio, forse è proprio questo il punto.




Titolo | Revenge
Regista | Coralie Fargeat
Anno | 2017

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