O.r.k. – Screamnasium | Quando il tutto è più della somma dei...

O.r.k. – Screamnasium | Quando il tutto è più della somma dei singoli

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Il moniker O.r.k., per quanto non abbia ancora la visibilità che merita, ha acquisito sempre più peso nel panorama alternative rock internazionale.
Basti pensare ai musicisti che ne fanno parte: Lorenzo Esposito “Lef” Fornasari, cantante e produttore bolognese con le mani in pasta da anni in progetti nazionali e non, Carmelo “Melo” Pipitone, dai noti e apprezzati trascorsi acustici con i Marta sui tubi, Colin Edwin, ormai ex bassista (sigh) dei Porcupine Tree, e Pat Mastellotto, da anni dietro le pelli dei King Crimson.
Line-up da mandibola sul pavimento, ma dal background apparentemente eterogeneo che mi ha sempre incuriosito: da un lato eclettismo vocale e grezza vena acustica, dall’altro un approccio ritmico spiccatamente progressive.
Eppure, da ormai un po’ di anni, i quattro tirano fuori un ottimo album dietro l’altro e, a tre anni dal Ramagehead, pubblicano su Kscope Screamnasium.

Che fazze!
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L’impatto è ottimo già a partire dall’artwork, curato da Denis Rodier (DC comics) e da nientepopodimenoche Adam Jones dei Tool, come quel simpaticone di Melo non riesce proprio a fare a meno di sottolineare più e più volte. Lo stile visionario di Jones era già stato al servizio del precedente Ramagehead e, con le sue tinte cupe, sposa bene la proposta musicale.

L’album si apre con As I leave, primo singolo estratto, e Unspoken words, due ottimi pezzi in stile alternative rock con richiami sonori agli anni ’90, soprattutto da un punto di vista vocale: da un lato Lef ha uno timbro ed uno stile che richiamano Chris Cornell sulle note più acute e Jeff Bukley sui falsetti, dall’altro le backing vocals rimandano tanto agli Alice in Chains. Per non parlare delle chitarre, che per suoni e arrangiamenti richiamano con estremo piacere quelle sonorità.

In Consequence, dopo la collaborazione con Serj Tankian nell’album precedente, Lef divide il microfono con Elisa in un pezzo dai toni epici e tragici che musicalmente non sorprende, ma che si regge egregiamente sull’intreccio delle due voci e che continua a farmi pensare ad Elisa come ad una delle migliori voci italiane, con delle potenzialità espressive anche al di fuori dell’ambito pop tutt’altro che banali.

I feel wrong ci fa tornare alle sonorità di inizio album, in particolare per quanto riguarda l’occhiolino agli Alice in Chains. Ottimo pezzo, ma è da qui in avanti che le cose si fanno davvero interessanti.

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In Don’t call me a joke si fa sentire tanto Melo Pipitone, con uno dei suoi riff sghembi che mi hanno sempre fatto impazzire ritmicamente già nei Marta, fino all’apertura ariosa del refrain in cui si sente sempre tanto lo stile del chitarrista siculo.
Ma anche nei pezzi successivi saltano fuori i background dei diversi musicisti: Hope for ordinary ha un’intro quasi ottantiana soprattutto da un punto di vista ritmico e sorprende dall’inizio alla fine, tanto da lasciare spazio anche al cantato in siciliano di Pipitone. Nei pochi minuti che la caratterizzano, le atmosfere cambiano da un momento all’altro in modo coerente e caratterizzano quello che è probabilmente il pezzo migliore dell’abum.

Deadly bite, con la comparsa di synth più progressive e l’arrangiamento ritmico rimanda un po’ ai Porcupine Tree, ma ci pensa il solito Lef, davvero sugli scudi in quest’album, a dare il trademark degli O.r.k. con una prestazione che dimostra le sue potenzialità espressive, che di certo non si limitano agli accostamenti con i mostri sacri citati in precedenza, ma che lo vedono a suo agio anche in range vocali più gravi, in cui anzi salta fuori anche in modo più efficace il suo timbro.

Something broke ha invece qualcosa dei King Crimson degli ultimi anni, soprattutto da un punto di vista di groove e di arrangiamento del basso. In questo senso Edwin e Mastellotto sono una macchina da guerra, una sessione ritmica che definire solida è dire poco. Senza mai strafare, ma sempre con una classe dei migliori, sono uno scheletro formidabile sul quale Melo e Lef possono intessere le loro melodie.

 

Una nota di merito sul chitarrista siculo è più che meritata in questo senso: se già nei Marta sui tubi ha sempre dimostrato il suo talento acustico e creativo, con gli O.r.k. tira fuori la sua vena più lisergica ed elettrica figlia del rock anni ’90 (ricordo ancora la sua cover di Space cadet dei Kyuss ad un live solista a Taranto qualche anno fa N.d.A.) e che contribuiscono a definirlo uno dei chitarristi più interessanti del genere degli ultimi anni.

E se Lonely crowd è un pezzo più tipicamente O.r.k., Someone Waits chiude questo Screamnasium sulle note più delicate e soffuse del violoncello di Jo Quail, aggiungendo su finale un ulteriore faccia espressiva della poliedrica band.

Poco da dire anche sulla produzione, davvero ottima e bilanciata. A tratti forse un po’ troppo pulita per i miei gusti, ma in grado di esaltare davvero i brani ed il lavoro dei quattro musicisti.

Nel titolo parlo del risultato come superiore alla somma dei singoli perché è questo che sono gli O.r.k.: non un progetto di quattro grandi musicisti che appiccicano le loro personalità, ma una band vera e propria in grado di creare bei pezzi in cui ognuno dei quattro si mette al servizio della canzone mantenendo la propria personalità e che con Screamnasium riescono a piazzare un altro ottimo lavoro nella loro discografia.

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