Riconsacrare ogni cosa | Cent’anni di Pasolini

Riconsacrare ogni cosa | Cent’anni di Pasolini

Introduzione

Ogni volta che penso a Pier Paolo Pasolini, penso a qualcosa di scabroso e di tenero insieme. Qualcosa che rimanda alla tenerezza dell’adolescenza, quando iniziai a studiarlo, ma anche alla nostalgia e a quel velo di tristezza che copriva sempre il suo volto nelle foto e nelle interviste dell’epoca.

Ho avuto la mia formazione critica, durante il liceo, sui suoi film e i suoi scritti tanto da ritenerlo uno dei capisaldi del mio pensiero critico e uno dei più importanti pensatori del dopoguerra, uno dei pochi con la lucidità adeguata per poter vedere il futuro prima che questo arrivasse. Eppure ancora oggi, anche con amici giovani, esce sempre la storia personale, la “questione privata”. E ci pone davanti ancora oggi, ora che per molti Pasolini è solo una delle esternazioni di Sgarbi, moltissimi interrogativi su di lui, ma anche sul ruolo dell’artista nella politica e sulla possibilità di scindere la persona dall’artista e dall’autore.

Sono passati 100 anni dalla sua nascita, 47 dalla sua morte, e ancora fatichiamo a parlare di lui in maniera distaccata.

Ho googlato il suo nome, per cercare precisamente la data di nascita e morte, e l’anteprima in alto a destra del motore di ricerca riporta semplicemente “poeta”. Sicuramente Pasolini lo è stato, prima ancora di diventare regista, scrittore, sceneggiatore. E la poesia in qualche maniera ha sempre racchiuso anche le altre sue declinazioni, caratterizzandole. Non è un caso, che uno dei suoi Scritti Corsari più famosi, il celebre “Il romanzo delle stragi – Che cos’è questo golpe?” (anche noto e ripubblicato come “Io so”) usi forme stilistiche ripetute che hanno più a che spartire con la poesia e l’oratoria che con l’articolo di giornale. “Ma la professione del poeta è sempre più insignificante”, scriveva, “È proprio necessario immettere quella lingua vivente in una lingua di convenzione, perché poi si liberi, tornando quella che è, vivente, nel lettore? Non sa, egli, dialogare con la realtà?”.

Arte che diventa politica: come tutte le forme d’arte dovrebbero? Nonostante il tempo storico attuale e la cultura capitalista ci invitino a rimanere nel nostro, dove l’arte dovrebbe solo essere evasione e nulla più, forse il ruolo della cultura andrebbe nuovamente ripensato. Ogni film di Pasolini, così come le poesie, aveva un senso profondamente politico; anche quando riprendeva tragedie classiche fra i Sassi di Matera.

Forse anche per questo siamo ancora qui a parlarne, perché l’arte resta e passa il messaggio. E quindi ancora oggi ci chiediamo cosa ne penserebbe Pasolini di questo nostro mondo scalcinato, lui che lo aveva spesso previsto con lucidità. Ben sapendo che magari ne resteremmo delusi (oddio, sarebbe un novax?), perché (di nuovo e sempre) non riusciremmo a staccare la persona dall’artista e dal pensatore.

Noi di SALT ne abbiamo parlato moltissimo, in questi anni di attività e vogliamo celebrare i 100 anni dalla sua nascita. Nell’attesa che nasca nuovamente una figura capace di polarizzarci così tanto col suo pensiero e con il suo lascito.

Alessandro Pigoni

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Oggi mi vesto di seta e d’amore | Pasolini scrittore

Poeta, appunto. Proprio la poesia è stata la prima espressione pubblica di Pasolini, in dialetto friulano prima e in italiano successivamente – le Poesie A Casarsa vengono pubblicate già nel 1942, anche se poi andranno a costituire la prima sezione de La Meglio Gioventù (1954); la prosa arriverà solo dopo. Ma già nella poesia, dopo i primi tentativi, troviamo alcuni dei nuclei tematici che poi seguiranno trasversalmente Pasolini lungo tutta la sua carriera. Ci sono la periferia e la provincia; il cemento che avanza, le campagne che vengono divorate dalla città e dal progresso. C’è un senso di perdita di appartenenza, di fanciullezza come luogo di rifugio poiché solo il corpo del ragazzo è davvero libero.

Guardo il mio corpo
di quando ero fanciullo,
le tristi Domeniche,
il vivere perduto.

È però il trasferimento forzato a Roma, nel gennaio del 1950, a segnare una cesura nella produzione di Pasolini che, poverissimo, si adatta come può al cambiamento lavorando anche come insegnante mentre continua a scrivere versi, prosa e contribuisce alla sceneggiatura de La Donna del Fiume di Soldati (1954). Incontra Penna, Caproni e Gadda, ma soprattutto incontra Sergio Citti e il sottoproletariato delle borgate: sommando a queste novità il passato recente dell’autore – la morte crudele del fratello Guido, il processo per atti osceni e corruzione di minore – è facile capire come nasca la tempesta perfetta dei Ragazzi di Vita, suo primo romanzo e grande successo di pubblico.

Ragazzi di Vita è nudo e crudo. È esattamente come appare. Nel momento stesso in cui lo si prende dallo scaffale della libreria e lo si apre per la prima volta, ci si ritrova a capofitto nelle vite del Riccetto, del Caciotta, di Alduccio, di Begalone e degli altri “ragazzi di vita” cresciuti nel cuore dei sobborghi romani del dopoguerra. E a quel punto la trama non serve affatto: basterà affacciarsi ad alcuni episodi della loro esistenza, buttandovi l’occhio distrattamente come se si guardasse all’interno delle case al piano terra, quando si passeggia per la strada e le finestre sono aperte.

Ragazzi di Vita viene pubblicato per la prima volta nel 1955, in un momento storico in cui già si sentono scricchiolare le basi del neo-realismo italiano che tanto aveva entusiasmato i letterati dell’epoca, nella speranza di un rinnovamento quantomeno stilistico oltre che sociale. Pasolini, avverso alla “mistificazione artistica” della realtà nella letteratura, nelle pagine di Ragazzi di Vita non lascia spazio ad una rappresentazione edulcorata della vita umana. Al contrario, è Pasolini stesso a dichiarare la propria volontà di “restare / dentro l’inferno con marmorea / volontà di capirlo” come si legge in Picasso: e la vita nelle borgate romane degli anni Cinquanta che cos’è se non inferno?

Se per i suoi “ragazzi di vita” non c’è riscatto sociale ma solo un’impietosa esistenza, la protagonista indiscussa del romanzo resta una sola, Roma. Una Roma colma di vita che ritroveremo anche qualche anno dopo in Mamma Roma (1962) con una splendida Anna Magnani; una Roma che Pasolini ama di un amore quasi disperato e che, tuttavia, è capace di descrivere con una prosa asciutta e distaccata, facendosi osservatore passivo di quel degrado che ne affligge la bellezza ambientale e morale.

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Er mondo è de chi cià li denti | I primi film

A riesaminare oggi la sequenza di film che inaugura la parabola del Pasolini regista c’è da rabbrividire: in soli tre anni, lo scrittore/poeta/intellettuale conquistato dal potere espressivo della macchina da presa realizza alcuni dei migliori film della storia del cinema italiano. Parte dalle borgate di Accattone (1961) e Mamma Roma (1962); passa per un primo approccio alla figura del Cristo ne La Ricotta (1963), provando nel contempo a offrire uno spaccato delle idee intorno alla sessualità dell’Italia del boom nei Comizi d’Amore (1964); approda infine alla trascendenza furiosa di un Gesù che “non porta la pace ma la spada” nel Vangelo Secondo Matteo (ancora 1964).

L’equivoco del Pasolini cineasta dilettante viene spazzato via da quella che Alberto Pezzotta definisce una “perfetta corrispondenza tra intenzioni e risultato”: tutto sta a capire dove risiedano, originariamente, quelle intenzioni, da dove nascano. Perché esiste un cinema che l’ha senz’altro ispirato, con cui il nostro ha chiacchierato e di cui si trova traccia nella rassegna Pasolini Giovane Spettatore che la Cineteca di Bologna ha programmato per questo marzo 2022 – Dreyer, Rossellini, Buñuel, Mizoguchi, Morin, Marker.

Ma l’estetica e il gusto che permeano questo percorso artistico non sono di origine cinematografica, ma figurativa.

Sono i dipinti e non le pellicole a far da guida al Pasolini che muove i primi passi nel mondo della Settima Arte. Ad alimentare quel fuoco sono le lezioni dello storico dell’arte Roberto Longhi, che – si legge nel recentissimo volume Folgorazioni Figurative – “nell’autunno del 1941, a Bologna, in Via Zamboni 33, ha spiegato a un ristrettissimo gruppo di studenti le differenze tra la pittura di Masaccio e quella di Masolino”.

È da quell’incontro che sgorgano le citazioni di cui si può godere sul grande schermo, anche se poi capita quasi sempre di non riconoscerle (una carenza di noi spettatori, non di un autore già maturo): ogni inquadratura è concepita come una carrellata su un dipinto, ogni sfondo come lo sfondo di un quadro, con “l’uomo al centro di ogni prospettiva”.

Ecco allora che la luce di quel bianco e nero così ricercato ambisce al masaccesco; Ettore che muore sul letto di contenzione richiama non tanto Mantegna, quanto Masaccio e Caravaggio; i quadri viventi a colori accesissimi de La Ricotta sono riproduzioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo; l’immaginario del Vangelo è una commistione di Piero della Francesca (l’Annunciazione, i costumi dei Farisei), El Greco (la crocifissione), Niccolò dell’Arca (il volto della madre Susanna Pasolini sfigurato come quello di Maria nel Compianto sul Cristo Morto).

Ma tutta questa ricerca formale non deve far dimenticare che il dettaglio estetico, qui, è funzionale al racconto politico e poetico di una realtà che solo il cinema può illuminare. Ed è prima di tutto la fascinazione per la realtà povera ma vitale delle periferie di Roma ad accendere i volti sconosciuti (a parte Anna Magnani) di prostitute, papponi e ragazzi di vita di Accattone e Mamma Roma: un mondo relegato ai margini del miracolo economico e del tessuto urbano dove stanno spuntando come funghi nuovi orrori edilizi, mostrato come nessun altro aveva fatto prima.




Poi, naturalmente, l’odio per la norma borghese, che Orson Welles dichiara esplicitamente ne La Ricotta, dove il ladrone buono muore d’indigestione sulla croce, dopo che chiunque gli ha negato il pane; che il Gesù rivoluzionario di Enrique Irazoqui ribadisce con veemenza, mentre rovescia i banchetti dei mercanti nel Tempio; che le domande sul sesso e sul rapporto col proprio corpo, sinceramente curiose e positivamente provocatorie, che Pasolini rivolge a italiani delle più varie estrazioni sociali, per poi dibatterne con la mosca al naso con quelli che teoricamente sarebbero suoi pari (Oriana Fallaci, per esempio) dai quali però si sente lontano anni luce.

E tutto questo viene schiantato sul corpo agitato di un Paese democristiano nell’urna ma ancora pienamente fascista nelle stanze del potere – Ettore, in Mamma Roma, non è solo un altro Cristo laico: è anche Marcello Elisei, diciannovenne che muore legato a un tavolo in una cella di Regina Coeli.

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Non c’è nulla di più contagioso del male | Dalla tragedia greca a Salò

La seconda parte della filmografia di Pasolini intermezza film sulla poetica degli ultimi a film antiborghesi, a tratti quasi teorici. Al primo gruppo appartengono i film legati ai miti greci (Edipo re e Medea), ambientati in luoghi desolati e quasi disabitati, in netta antitesi con lo sfarzo dei peplum italiani e hollywoodiani. Eroi tragici, ma prima di tutti povera gente, dominata e trascinata da un destino che faticano a capire e a combattere.

Come l’approccio pittorico eleva a madonne e cristi laici i ragazzi di vita della borgata romana, così il mito colloca nella giusta prospettiva storica il popolo ed il proletariato. Sono loro il vero motore della storia, ma sono anche coloro che la subiscono, cieca e senza scopo. Eppure la speranza riposta in questo popolo bistrattato rimane, sotto la brace, in attesa che “la natura ritorni a sembrare normale”.

L’impulso politico di Pasolini troverà poi il suo culmine nei film sulla distruzione della borghesia (Teorema e Porcile) ed infine nella Trilogia della Vita e Trilogia della Morte (incompiuta, o forse compiutissima). I primi due film descrivono la distruzione del più piccolo nucleo di società borghese: la famiglia. Sono due film quasi didascalici, a tratti non realistici nei dialoghi (soprattutto Porcile). La famiglia borghese è il primo nucleo dei rapporti di potere tipici del capitale; da lì può partire la rivoluzione.

Ma quale rivoluzione? Se Julian in Porcile non trova una risposta chiara, dato che ribellarsi al padre gli sembra una strada già battuta, è l’Ospite di Teorema che prova a dare una risposta. Il desiderio, incarnato nel corpo del Giovane, è la scintilla per abbattere il muro. Non è un caso che il protagonista di 1984 di Orwell inizi il suo processo di ribellione con un amplesso. Il risultato di questa ribellione del desiderio non è predefinito e può anche essere negativo, ma solo liberato dalle catene l’uomo può cercare di essere se stesso, senza che il potere lo soggioghi. Potrà così liberarsi del fardello del capitale borghese (il padre), delle convenzioni (la madre) e dei preconcetti imposti dal super-Io borghese e paterno (il figlio).

Ma lo sconvolgimento del desiderio non più represso può anche portare alla pazzia o alla santità, che sappiamo essere due facce delle stessa medaglia.

È questo l’assunto da cui poi prendono spunto in maniera ancor più allegorica i tre film che compongono la Trilogia della Vita (Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), che usa le storie per portare sullo schermo il desiderio giocoso e quasi infantile della gioventù. Attori feticcio per tutti e tre i film sono Franco Citti e Ninetto Davoli (unici volti noti in mezzo ad attori presi dalle borgate romane, come al solito). Loro rappresentano i due volti della gioventù: la serietà dell’opposizione con Citti, la spensieratezza svagata di Davoli. Due aspetti che Pasolini cercava (e trovava) nelle campagne e nelle borgate, lontano dai luoghi del potere che corrompo.

Sarà questo potere a diventare centrale nell’ultima opera del regista, forse la più bella, senza dubbio la più difficile, seminale ed influente di tutta la sua carriera: Salò o le 120 giornate di Sodoma, primo capitolo dell’incompiuta Trilogia della Morte. Il corpo è rivoluzionario, ci dice nella Trilogia della Vita; ma se il potere corrompe il desiderio, governandolo, allora ogni possibilità di rivoluzione scompare. I giovani chiusi nella villa fascista dai Potenti (potere politico, ecclesiastico, economico, fascista) sono in numero nettamente superiore ai loro carnefici, ma non si ribellano, neppure di fronte alle estreme conseguenze.

Il desiderio in mano al potere diventa strumento di controllo; il corpo non è più rivoluzionario.

Tutto è perduto.

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Il coraggio intellettuale della verità | Pasolini ci parla ancora

Se da queste righe piene di emozioni che il Pasolini poeta, narratore e infine regista ci ha regalato è rimasto fuori il Pasolini polemista, è perché questo lato così importante della sua personalità è quello che ci consente di chiudere il cerchio del nostro racconto meglio di ogni altro, ragionando così sulla sua eredità. Non c’è alcun intellettuale del Novecento che sia ancora così centrale nel dibattito pubblico, nessuno che sia così discusso: tra gli italiani, solo Eco può vantare la stessa fama al medesimo livello di popolarità; ma Eco è decisamente meno “discutibile”. Pasolini, invece, dopo tutti questi anni, non lo si riesce a ridurre a un santino come spesso accade alle icone culturali del nostro Paese.

Tutti cantano l’anarchico De André, oggi; Calvino viene svuotato di ogni senso, perfino sul palco di Sanremo: ma Salò non si trova nella homepage di una piattaforma di streaming o in prima serata, perché quel materiale è ancora di una violenza incandescente, figlio di una visione chiarissima della società e del potere, scomoda proprio perché attuale. Si può fingere che Pasolini sia solo qualche hashtag – le lucciole, il mondo contadino, la polizia – o qualche posizione molto più che controversa – la questione dell’aborto, brandita come una clava dall’orrida destra italiana. Ma c’è, nel suo pensiero, qualcosa che a volte sfugge e molto spesso continua a dirci più cose su di noi di quante vorremmo saperne.

Il cinema di Pasolini è stato subito influente: Roberto Chiesi (responsabile dell’Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna) cita Rainer Werner Fassbinder ed Elio Petri, Sergei Parajanov e Brillante Mendoza. Nel nostro cinema attuale, invece, non possiamo non pensare a Matteo Garrone, per la brutalità agita da chiunque su chiunque in Dogman o per le fiabe improvvisamente crudeli e disturbanti del Racconto dei Racconti, ma anche al Guadagnino di Io sono l’amore, “remake” meno coraggioso e più formale di Teorema. E poi c’è Alice Rohrwacher, dalla religiosità bruciante di Corpo Celeste alla rivoluzione gentile di Lazzaro Felice: Alessandro ne aveva parlato con la regista, che aveva inizialmente negato di aver pensato a PPP, salvo poi ammettere che quell’immaginario, ormai, era probabilmente una parte inevitabile del proprio sguardo.

Esattamente come nella letteratura bastano certe ambientazioni e certi temi – Roma, i corpi giovani, la cronaca nera che s’impasta alla vita – per intravedere l’ombra di Pasolini (i Giovanissimi di Alessio Forgione, che tanto hanno colpito Stefania; La Città dei Vivi di Nicola Lagioia, tra i nostri preferiti degli ultimi anni).

E non è nemmeno casuale che uno degli album più importanti mai pubblicati in Italia, Linea Gotica dei CSI, si concluda con una citazione pasoliniana e alcune parole vergate da Giovanni Lindo Ferretti, un altro che non ha mai smesso di sezionare il presente e per cui La Ricotta è ancora una folgorazione: “Per come va il nostro mondo tutti quelli che denunciano ed evidenziano il degrado umano contribuiscono, malgrado loro, ad aumentarlo. E questo “malgrado” è tutto ciò che resta alla nostra buona coscienza”.

Ecco: il nostro mondo, il suo e il nostro degrado, Pasolini li aveva già visti e previsti tutti. E certamente è difficile scindere questa capacità di puntare il dito così precisamente dalla sua morte violenta: ma, indipendentemente dalla versione dei fatti della notte di Ostia cui si scelga di prestar fede, è ancora abbagliante la luce con cui Pasolini illumina i lati oscuri del nuovo conformismo della società dei consumi.

Nelle pagine travolgenti dei suoi Scritti Corsari (1973/1975) il conformismo è un potere perfino peggiore del fascismo, per il modo in cui, da un giorno all’altro, ha rimpiazzato interi mondi – perfino la Chiesa! – inabitando senza alcuna opposizione le coscienze delle persone e cambiandole dall’interno.

Non che prima di allora Pasolini non avesse lanciato granate, anzi: già Julian, in Porcile (1969), non sa se ribellarsi alla famiglia o abbracciarla, e finisce in stato catatonico, comprendendo che non esiste via d’uscita; il Padre, ex nazista diventato imprenditore, lo spiega in un dialogo che sembra una didascalia: entrambe le vie sono contemplate dal Potere, che sa esattamente come gestirle – reprimendo in caso di ribellione, spronando in caso di affiliazione.

Fisheriano, vero? E infatti, a rileggere gli Scritti Corsari, si ritrova la stessa sensazione fisica di impossibilità di una reale scelta che proviamo oggi di fronte alle catastrofi che ci sovrastano e al potere del Capitale. Tutte queste cose Pasolini le diceva sui palchi, nei versi e nei romanzi “di vita”; le urlava con la voce più credibile che il Gesù Cristo dei Vangeli avesse mai avuto; le ripeteva, infine, in pezzi di giornale – usciti sul Corriere della Sera, non su qualche rivista di infima tiratura – intrisi di una vena polemica inarrestabile. Sempre animata da una tensione migliorativa e provocatoria mai fine a se stessa, perché per lui, che quel potere violento lo viveva sul proprio corpo, quella era una questione di vita o di morte.

Fino a prefigurare la propria eredità: non c’è più stato un nuovo Pasolini perché il potere si è assicurato che non si ripetesse. E la sua opera, riletta e rivista alla luce di ciò che siamo diventati, ci lascia con il più amaro degli interrogativi: se mai ne arrivasse un altro, saremmo capaci di riconoscerlo?

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