I film del 2021 (sempre secondo noi)
Se vi chiediamo quale film vi ha lasciato di più in questo 2021, cosa rispondereste?
Quello che vi ha più emozionato, a cui avete maggiormente pensato dopo averlo visto; quello che ancora oggi, dopo settimane o mesi, vi scoprite a ripensare, magari vedendo dei significati che prima non avevate indovinato.
Nonostante il periodo storico strano in cui tutti viviamo, quest’anno sono usciti molti film belli (soprattutto nell’ultima parte dell’anno, sempre a causa del periodo storico). Ne abbiamo fatto un condensato, una spremuta.
I migliori film di questo anno agli sgoccioli, secondo l’insindacabile giudizio della Redazione di SALT. E quando diciamo insindacabile, intendiamo che sono proprio i migliori. Fine. Basta. Stop. Lasciate perdere Mereghetti, New Yorker e le altre voci di poco conto.
Questa è LA lista.
TITANE – JULIA DUCOURNAU
Se fosse necessario salvare un unico film del 2021, forse sarebbe Titane.
Raro cinema dell’eresia che lascia aperto uno spiraglio nella produzione piatta e massificata di gran parte dell’industria cinematografica, quello della Ducournau è un film difficile, duro, che potrebbe non piacere; ma che non può restare indifferente. Si esce dal cinema e qualcosa rimane appiccicato addosso, come grasso e olio motore, per giorni, portandoci a pensare ad alcune scene o stratificazioni.
Titane parla un linguaggio tutto suo e porta avanti un ideale ben chiaro nella mente della regista, senza compromessi. Il film eleva il concetto di fluidità di genere ad un nuovo livello testuale e metatestuale: Ducournau mescola con incredibile facilità i generi cinematografici, fino a creare qualcosa di nuovo e diverso, che parte da una folle corsa nei terreni dei film sui killer (da Harry Pioggia di Sangue, fino a riferimenti a film recenti come Us), per proseguire in una sorta di melò familiare dove pezzi di un puzzle che non combaciano vengono accostati a formare un’immagine completa di “famiglia”.
Allo stesso modo, non mescola ma anzi quasi se ne frega dei generi dei suoi protagonisti, come se l’unica cosa che contasse fossero le interazioni, mantenute incredibilmente empatiche anche quando sembra impossibile. Fino all’ibrido uomo-macchina, con evidenti riferimenti al cinema di Cronenberg (Crash, ovviamente, ma non solo) e ultimo stadio (o primo stadio?) di questa nuova fluidità. Tutto mescolato, a velocità diverse. E la cosa incredibile è che funziona alla perfezione, inaspettatamente.
È il cinema come dovrebbe essere, cinema che incendia l’immaginario.
PETITE MAMAN – CÉLINE SCIAMMA
Nelly, otto anni, perde la nonna da tempo ricoverata in una casa di riposo; in compagnia della madre Marion e del padre, ne visita l’abitazione di campagna. Durante una passeggiata tra le foglie secche del bosco che la circonda, la bimba incontra una coetanea che differisce da lei solo in qualche minimo lineamento del viso; altra coincidenza: anche lei si chiama Marion. Insieme trascorreranno giorni di scoperta e condivisione di dubbi e paure in cui il mondo adulto entrerà solo di rado, come scusandosi di tutta l’incertezza che rovescia sui più piccoli.
In una meraviglia di film in cui la Settima Arte si a strumento di conforto dei minuti ed esili, Sciamma lascia intuire l’incanto del sovrannaturale un dettaglio dopo l’altro senza il bisogno di spiegarlo con dialoghi troppo elaborati per l’età delle protagoniste: tutto, in Petite Maman, semplicemente accade, avvolgendo lo spettatore nella coperta di un mondo di fiaba, messo in scena con tenerezza ma non per questo privo di spine.
La sofferenza è di tutti, ed è impossibile da giudicare: la perdita e il rimpianto per aver detto a qualcuno che si ama parole sbagliate o solo imprecise, non immaginando che sarebbero state le ultime; lo sgomento che si prova da bimbi quando ci si rende conto di quanto sia fioca la torcia di chi ci precede e dovrebbe far luce per noi; la fatica che si prova da grandi nell’accettare che la vita sia perdere un pezzo alla volta. Ma nessuno è un’isola, ricorda Sciamma, girando scene memorabili in cui la vicinanza tra i corpi emana un calore distintamente percepibile anche da questa parte dello schermo.
SHIVA BABY – EMMA SELIGMAN
Shiva Baby è il racconto di una singola, tumultuosa giornata nella quale una famiglia ebraica si riunisce per celebrare appunto uno shiva, ovvero una commemorazione funebre: una sinossi che sembra anticipare il più classico dei kammerspiel, ma che è in realtà il pretesto per una tesissima, e spesso esilarante, immersione nella psiche travagliata della giovane protagonista Danielle, che si trova intrappolata sotto lo stesso tetto con i suoi genitori, la sua ex Maya e con lo sugar daddy che la mantiene economicamente.
Il crescendo di situazioni imbarazzanti è un inarrestabile fiume in piena, grazie all’intuizione vincente dell’autrice Emma Seligman di girare una commedia come fosse un thriller, con tanto di colonna sonora dissonante, sequenze al rallentatore e messa in scena claustrofobica; Shiva Baby riesce però nel miracolo di non essere mai parodistico, e il suo racconto della ricerca di un’identità al di fuori della cultura patriarcale è davvero toccante.
È STATA LA MANO DI DIO – PAOLO SORRENTINO
– Ma che guardi a fa’?
– Niente. Guardare è l’unica cosa che so fare
Se per paura di Sorrentino, se – per la convinzione che i film di Sorrentino non vi piacciano affatto – vi perdete È stata la mano di Dio, allora perdete il più beffardo, seducente, commovente, lirico e compiuto “ritratto di famiglia” dei nostri ultimi anni, cinematograficamente parlando.
I primi due terzi del film sono un concentrato del meglio di Sorrentino (che tiene fermamente a bada il suo “peggio”): la memoria visiva che di tutto si incanta e tutto registra – una pipa, una certa luce, una smorfia del viso – e la sua straordinaria capacità di disegnare personaggi, sceglierne e guidarne gli attori, raccontarne le biografie senza parlare, solo inquadrando. Nessuno, oggi, è così bravo a mettere in contatto gli spettatori con il dolore e la vita dei volti dentro lo schermo, senza sprecare, almeno con loro, parole.
Le battute sornione, le storie condivise, le litigate furiose, la religione collettiva che ha nome Maradona e le lunghe, crasse tavolate di famiglia. L’amore sacro e leggero dei genitori. Tutto questo è il cuore del film – e Napoli è al centro del centro e soltanto chi ha la fortuna di non amarla può uscire indenne dal film – ed è ciò che in Sorrentino c’è di più puro, protetto, custodito. La ragione di tutto.
IL BUCO – MICHELANGELO FRAMMARTINO
Si esce dalla sala quasi storditi, al termine dei novanta minuti de Il Buco, discesa nelle profondità della terra che ha il potere di documentare con straordinaria precisione un momento irripetibile del Novecento. Il terzo lungometraggio di Michelangelo Frammartino narra la spedizione di un gruppo di speleologi piemontesi che nel 1961 si calò giù per centinaia di metri nell’Abisso del Bifurto, nel Pollino calabrese.
Sono gli anni del miracolo economico italiano, di cui Frammartino tratteggia con finezza le due velocità: da un lato, i vecchi del paesello del Sud radunati in piazza attorno all’unico televisore disponibile; dall’altro, i toni enfatici dei telegiornali che raccontano la costruzione del Grattacielo Pirelli di Milano. Ma sono pure gli anni di Kennedy e della corsa allo spazio: e se da una parte Il Buco sembra esaltarne l’attitudine conoscitiva – “scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare anche le altre cose correlate a ciò, non perché esse siano facili, ma proprio perché sono difficili” -, di contro non teme di ricordare la nullità dell’essere umano e della sua buffa fame di velocità di fronte all’imponenza delle ere geologiche.
Un’esperienza immersiva che toglie il fiato, durante la quale si fatica a credere che quello cui si sta assistendo sia un film di finzione ripreso da telecamere piuttosto che un’impresa in tempo reale cui noi stessi partecipiamo in qualità di testimoni oculari.
SUMMER OF SOUL – QUESTLOVE
In un mondo ideale, Summer of Soul si dovrebbe studiare e ammirare già nelle aule scolastiche. Questo ritmatissimo documentario è stato assemblato da Questlove, produttore musicale e batterista dei The Roots, a partire dalle riprese dell’Harlem Cultural Festival tenutosi nell’estate del ‘69 a New York.
Se siete incuriositi e pure un po’ stupiti di non averne mai sentito parlare, preparatevi a una lezione di storia elettrizzante ma molto dura: mentre l’America WASP si sballava a Woodstock e atterrava sulla Luna, artisti del calibro di Nina Simone, Sly & the Family Stone, Stevie Wonder e Mavis Staples erano tutti sullo stesso palco a esibirsi per chi viveva schiacciato dalla miseria e dal razzismo.
Summer of Soul non si limita però a essere un film-concerto: fluisce al ritmo di uno spartito nel quale la gioia pura che emana dalle performance fa da perenne contrappunto ai suoni e alle immagini di un momento chiave nella storia di una comunità intera. Mentre il lutto per le morti di Malcolm X e MLK ancora sanguinava, la black culture guardava al futuro con rabbia e speranza di riscatto, lottando con le unghie contro l’oblio: e se il termine vi pare esagerato, pensate che un evento al quale si stima abbiano partecipato 300mila persone è stato quasi completamente rimosso dalla memoria collettiva.
Questlove si è posto il compito di accendere una luce su questo angolo buio, dimenticato: e lo svolge con il rigore e la passione dei migliori libri di storia.
MADRES PARALELAS – PEDRO ALMODOVAR
Le donne di Almodovar sono incredibili, sempre.
E ogni volta che Almodovar parla di donne, non sbaglia, anche al netto di alcune sbavature.
Madres Paralelas non fa difetto e ci regala una bellissima parabola sulla maternità, completamente al femminile. Gli uomini sono estromessi, volutamente o meno, fino praticamente alla fine ed anche allora risultano dei meri intermediari di un discorso più ampio. La donna si fa portatrice di tutto il peso della storia e della Storia.
Le madri parallele non sono solo Janis e Ana, le protagoniste, ma tutte le madri che le hanno precedute e quelle che verranno. La maternità viene qui intesa come portatrice di vita, ma anche come portatrice di memoria: solo portando il passato è possibile generare il futuro, parafrasando quello che Janis dice ad Ana ad un certo punto del film.
Il loro ventre, come la terra della fossa che dà avvio alla vicenda, custodisce il passato ed il presente; e genera il futuro. Che sarà donna.
Penelope Cruz è sempre perfetta e sempre più bella e si muove perfettamente a suo agio dentro i colori saturi tipici dei film del regista spagnolo. Peccato per un doppiaggio abbastanza tremendo nella nostra lingua, che appiattisce molto la profondità dei personaggi.
PS: c’è anche un omaggio a Raffaella Carrà.
DUNE – DENIS VILLENEUVE
Dune è un libro notoriamente ingirabile, quasi impossibile da portare sul grande schermo. Chi ci ha provato ha fallito, creandosi da solo una montagna troppo immensa da scalare; chi lo ha fatto, cerca di dimenticarlo (sì, stiamo parlando del Dune di Lynch, che possiamo al massimo leggere in chiave camp, ma in ogni caso rimane tremendo – il voiceover, cazzo!).
Eppure Villeneuve lo ha fatto, forse nella migliore maniera possibile, creando il (primo capitolo del) film di fantascienza dell’anno. Complice forse anche l’attitudine poco emotiva del regista, spesso tacciato (non a torto) di essere poco empatico nella realizzazione dei suoi film, che appaiono a tratti freddi; in questo senso, Dune si presenta come il perfetto materiale per Villeneuve: il protagonista è antipatico e con lui si fa molta fatica ad immedesimarsi, e Timothée Chalamet è perfetto per il ruolo (unica nota: ancora non abbiamo capito se è bravo a fare l’antipatico viziato o semplicemente è proprio così lui).
Villeneuve, inoltre, non concede nulla allo spettatore: non siamo di fronte ad un film Disney/Marvel con la spalla comica che alleggerisce; qui non c’è un cazzo da ridere: si parla di stupefacenti che espandono la mente, lotte commerciali, tradimenti, strani culti con strani rituali, gente del deserto che fa gli attentati a compagnie di sfruttamento speziario (minerario ma con la spezia NdS) e al capitalismo in generale. Il tono è sempre serissimo e questo rappresenta una notevole inversione di tendenza e la dimostrazione che il pubblico può essere appagato anche senza i soliti mezzucci: gli unici due momenti di semi-ilarità sono quasi involontari.
Visivamente il film è strepitoso ed il regista è in grado di coprire anche le magagne legate al budget limitato (sì, si vedono se state attenti), creando un universo complesso ed articolato, che fa solo venire voglia di saperne di più. Il tutto coadiuvato da un cast di altissimo livello, sul quale spicca una straordinaria Rebecca Ferguson nel ruolo della madre del protagonista.
Ne vogliamo ancora. Più vermi. Più deserto. Più Lady Jessica.
FIRST COW – KELLY REICHARDT
Come Celine Sciamma, anche Kelly Reichardt ha un modo così peculiare di guardare il mondo attraverso la cinepresa che i suoi film sono immediatamente riconoscibili. Che si tratti di take sul western (Meek’s Cutoff), sul buddy movie (Old Joy), sul thriller col pretesto dell’ambientalismo (Night Moves) o sui piccoli e grandi drammi della vita quotidiana (Certain Women), il minimo comun denominatore della sua opera è sempre lo stesso: un’analisi sottile ma ficcante delle dinamiche di potere che sono l’essenza stessa del capitalismo. Cinema politico, dunque, anche se non lo diresti di primo acchito, e questo bellissimo First Cow – del 2019, ma arrivato in Italia solo quest’anno su MUBI – non fa eccezione.
La trama è presto detta: un cuoco e un immigrato cinese stringono un forte legame d’amicizia in un mondo, quello dove nasce l’illusione del Sogno Americano, in cui “arrivare” è già l’unica cosa che conti, non importa a spese di chi; l’attività imprenditoriale che avvieranno – ricetta squisita a base di latte, astuzia e vero ingegno – durerà un battito di ciglia, il tempo che gli altri si accorgano della sua redditività e dell’inganno su cui poggia. Girato in uno stile fluido e naturalistico – la storia non accade in un vuoto: a lato corrono mille rivoli solo accennati di cui non si saprà mai nulla -, First Cow è uno sguardo acuminato su un’epoca che già mostrava chiaramente l’inganno violento di un intero sistema economico.
PIG – MICHAEL SARNOSKI
Pig, scritto e diretto dall’esordiente Michael Sarnoski, è stata una delle sorprese più folgoranti del 2021.
Del resto, reclutare Nicolas Cage come protagonista del tuo film crea determinate – rischiosissime – aspettative: alzi la mano chi ricorda quale sia stato il suo ultimo ruolo che abbiamo preso completamente sul serio. Sarnoski questo lo sa alla perfezione, e parte da una premessa che più meme friendly non si potrebbe: Cage interpreta un taciturno eremita, che vive raccogliendo tartufi nei boschi intorno a Portland assieme al suo inseparabile maialino, fino alla notte in cui viene aggredito e privato del suo animale domestico. Questo evento lo spinge a tornare in città alla sua ricerca, e se vi aspettate il crossover non ufficiale tra Mandy e John Wick, credeteci: non siete affatto preparati a Pig.
Senza fare troppi spoiler, il colpo di genio del film consiste proprio nel suo modo gentile e profondo di sovvertire le aspettative, rifiutando a ogni occasione il colpetto di gomito per parlarci con pazienza del tenere alle persone e alle cose, dell’arte dimenticata dell’empatia.
FREAKS OUT – GABRIELE MAINETTI
Che fosse complicato replicare il successo di pubblico e di critica di un instant cult come Lo Chiamavano Jeeg Robot era probabilmente chiaro a Gabriele Mainetti sin dall’inizio dei lavori per Freaks Out. Che ha quindi scelto la strada meno battuta, addentrandosi nella fitta quanto rigogliosa foresta della propria ispirazione piuttosto che puntare sulla strategia sicura del sequel/prequel così centrale nell’industria cinematografica contemporanea.
Storia di creature bizzarre e meravigliose ambientata nella Roma della Seconda Guerra Mondiale, Freaks Out segue le vicende di quattro artisti da circo – la ragazza elettrica e il ragazzo degli insetti, l’uomo-lupo e il nano-calamita – alla ricerca di Israel, capo e mentore sparito nel nulla; il loro vagabondare si ingarbuglierà a quello di una banda partigiana – freak anche loro, burberi dal cuore d’oro – e delle manie di grandezza di Franz, ufficiale nazista a-sei-dita – non la sua unica peculiarità.
Centoquaranta minuti che potevano forse essere di meno, d’accordo, ma l’ambizione e il senso di necessità che pervadono la narrazione di Freaks Out rendono la visione un’esperienza importante. Per la delicatezza con cui tratteggia i personaggi, tutti, con poche pennellate; per la qualità estetica e spettacolare della messa in scena, anche senza i fondi di una produzione hollywoodiana; per il modo commovente in cui il Novecento entra nel fantasy, raccontando un tragico conflitto per quello che è stato: una storia di uomini e donne che a un certo punto hanno dovuto abbandonare una vita qualsiasi per inventarsene un’altra, eroica. In nome della libertà, loro e nostra.
SCOMPARTIMENTO N.6 – JUHO KUOSMANEN
[Premio Bonus “Bella Scoperta”]
Premiato a Cannes, il secondo film di Kuosmanen è la bella scoperta di questa stagione (pur vessato, come al solito, dal titolo italiano In viaggio con il destino, porcoddue). Un viaggio in treno attraverso la Russia di fine anni novanta/inizio duemila per una studentessa finlandese alla ricerca di se stessa. Da Mosca, dove ha una relazione con una professoressa più grande di lei, a Murmansk per vedere i petroglifi, MacGuffin archeologico della vicenda. Sul treno incontra un giovane minatore, con il quale condividerà il viaggio.
Trama all’apparenza semplice, che riprende il topos del viaggio di due persona completamente diverse che si scoprono, durante il percorso, più simili del previsto e diventano amici, Scompartimento n.6 è innanzitutto un film sull’amore per se stessi. La giovane protagonista ha idealizzato quello che vorrebbe essere nella figura della professoressa di Mosca e durante il viaggio imparerà che esiste anche da sola, non come riflesso di un’idea o di sue aspettative, ma nel qui e ora (che nello specifico è prima un treno sudicio e poi una città oltre il circolo polare artico).
Seidi Haarla riesce a cambiare volto con un semplice sorriso, che spargerà nel corso del film, aiutata dalla regia che non si allontana mai dai personaggi. La camera a mano, la vicinanza delle inquadrature, la grana analogica che sembra sempre mostrare un mondo al di là del finestrino, rendono sia lo spaesamento dei personaggi quanto l’ambiente angusto e caotico del treno, comprimario per quasi tutto il film.
Sembra un film che viene da un altro tempo e ci piace.
Questa lista è stata scritta col contributo di: Andrea Limone, Francesco Pandini, Alessandro Pigoni, Stefania Trombetta.