Strappare lungo i bordi | Non la caduta, ma l’atterraggio

Strappare lungo i bordi | Non la caduta, ma l’atterraggio

Zerocalcare | Strappare Lungo i Bordi

Tra tutti i vizi che non perdono a quest’epoca di riproducibilità tecnica dell’opinione ce n’è uno che mi fa scattare i nervi come un real live wire: la tendenza ad assecondare e blandire teste pigre, abusando di formule ultra-inflazionate per la descrizione delle emozioni di fronte a un qualunque brandello di content da dare in pasto ai feed – un film è quasi sempre “un pugno allo stomaco”, la stessa cosa che ci siamo abituati a dire di un reportage di guerra con cadaveri in bella vista.

Tutto è uguale a tutto, e le parole e l’aria per dirlo sono sempre meno: nel caso di Zerocalcare, della sua opera a fumetti e, ora, della sua serie Strappare Lungo i Bordi, si dirà “generazionale”, “no vabbé”, “daje forte” o “LOL pagace l’analista” prima dei titoli di testa e dieci secondi dopo i titoli di coda. Male, malissimo: dentro a questa splendida miniserie animata in sei episodi c’è tanto più di questi lorem ipsum, polpa verace di vita in cui affondare gli occhi e uova sode che, ficcate in gola, non vanno né su né giù – mentre, per dire, all’ultimo Wes Anderson di The French Dispatch sono rimaste ormai solo le inquadrature simmetriche.

Arriva su Netflix con tutti i crismi della grande produzione mainstream, Strappare Lungo i Bordi, a dieci anni esatti dall’uscita del libro che ha cambiato la vita di Michele Rech e il fumetto italianoparole di Fumettologica, storicamente e commercialmente inconfutabili.

Autoproduzione trasformata con BAO Publishing in un longseller imprevisto, La Profezia dell’Armadillo segna l’arrivo di una voce nuova e fresca nel panorama editoriale di massa, una volta tanto non figlia di trafile obbligate e giri giusti, ma invece, chiassosamente, di Rebibbia, del punk, dei centri sociali, delle fanzine – e su quel mindset Rech baserà orgogliosamente tutta la propria carriera a venire.

Da lì in poi, il centrifugato ipervitaminico di politica, nostalgia, scazzo slacker, autoanalisi affilata e quel non sequitur randomizzato di prodotti audiovisivi che amiamo definire “cultura pop” servirà a Zerocalcare per dar vita a un universo che rimarrà peculiare sia nelle uscite più scopertamente autobiografiche che in quelle che, come Dimentica Il Mio Nome o Scheletri, deviano maggiormente dal canone – senza contare quella meravigliosa cronaca dal fronte chiamata Kobane Calling.

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C’è ancora tutto questo ad aggrovigliarsi nei pochi minuti di ciascuna puntata della prima serie animata a firma Zerocalcare. Ma se mente e brand sono inconfondibili – e Netflix non pare essere intervenuta più di tanto a dire cosa dovesse o meno essere detto e rappresentato, qui – è pur vero che Strappare Lungo I Bordi non è un lavoro autarchico come da tradizione Rech, che da una vita pubblica quasi senza eccezioni in bianco e nero per non dover includere altri soggetti nel processo creativo.

Piuttosto, è il risultato di uno sforzo d’insieme da duecento persone, che ha coinvolto lo studio di animazione Doghead e poi nomi noti come Giancane – per l’efficacissima colonna sonora – e Valerio Mastandrea – uno che ci vede sempre lungo, quando si tratta di stare nel posto giusto al momento giusto: penso alla vicinanza e al sostegno a Claudio Caligari per Non Essere Cattivo; penso a Gabriele Mainetti e al suo cult Basette, anni prima di Jeeg Robot. Alla fine, però, il centro di tutto restano Rech, la sua schiena dritta, le sue dodici ore al giorno sul divano tutto preso a disegnare e perso dentro al piccolo cinema paranoico della sua testa; c’erano pure le vocette da fare, stavolta, ma pare non sia stato un grosso problema per uno che effettivamente scrive le cose come le direbbe.

Strappare Lungo I Bordi è un viaggio in treno per un motivo tenuto nascosto finché si può, una storia in cui i bordi hanno il medesimo valore del centro. Ad accompagnare Zero, due amici di una vita: Sarah (che aspira a diventare insegnante) e Secco (che non aspira, ed è a posto così); non c’è spazio, almeno qui, per l’habitué Cinghiale, ma del resto non s’intravvedono spiragli sufficientemente ampi per una sottotrama comica pecoreccia. C’è invece tutto lo spazio che serve per l’Armadillo/Mastandrea, coscienza armata di corazza e street knowledge che accompagna e fa da mentore al protagonista nel viluppo di dubbi che lo paralizza di fronte a ogni scelta – indifferentemente, una pizza o la possibilità di un amore.

Le mille divagazioni cui il nostro si obbliga pur di non dire ad alta voce le ragioni di un viaggio che per qualche giorno lo porterà lontano da Rebibbia – bestemmia! – trasformano il plot in un terreno zeppo di botole in cui da un momento all’altro si casca per ritrovarsi anni o perfino decenni avanti e indietro nella storia personale del ragazzo. La lingua di Rech è un maremoto d’irresistibili veemenza e inventiva mentre narra disavventure bambine – maledizioni e mortacci, maestre e bulli – e poi adolescenti – i primi concerti e la prima cotta, il G8 di Genova e una maturità che promette una chiave per la libertà e invece no, regala solo un’altra porta aperta sul vuoto.

E, in mezzo alle onde di ricordi e futuri mancati, lei: Alice, motore di tutto, perfino delle infinite parentesi.

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Strappare Lungo I Bordi | Zerocalcare

Per questo, per evitare una verità che ammutolisce, le prime quattro puntate si muovono a un ritmo che definire “frenetico” è riduttivo. Il consueto armamentario di metafore sgangherate eppure millimetriche di Zerocalcare induce alternativamente al riso sfrenato o alle lacrime, ed è qui riassunto in modo mirabile: cartoni animati, serie tv (in quanti prodotti Netflix avete visto qualcuno guardare Netflix?), cinema (il consueto Terrence Malick, L’Odio, This Is England, un milione di poster di film dai titoli malamente tradotti), liceo classico (il mito della caverna di Platone, anche un dibattito dotto sull’etimologia di “catarro” e “catarsi”), deprimente attualità (l’opuscolo L’Oculista Sovranista di tal Stefano Bannoni).

Stanze di una casa di cui Rech ha già illuminato ogni angolo, ma che qui trovano una motivazione più precisa del banale fan service: proprio quando ti sembra che i parallelismi tra il gelo dell’aria condizionata del treno e l’era glaciale siano un po’ troppo, proprio quando percepisci distintamente la loro natura pretestuosa, interviene l’Armadillo a farglielo presente. Il velo è squarciato, i tempi di Strappare Lungo i Bordi rallentano e Alice smette di essere una proiezione delle ansie di Zero per diventare una persona, con una storia e una voce proprie.

Qualunque coetaneo di Rech può riconoscersi nel suo immaginario e in determinate esperienze di vita, certo: la mancanza di stabilità e di prospettive lavorative e relazionali, se non l’abbiamo vissuta in prima persona, l’abbiamo per forza sentita raccontare. Ma non è questo il valore “generazionale” della serie, che invece, se ne può avere uno, lo mostra nella capacità di descrivere un sentire comune – nonostante Zerocalcare, con grande onestà, parli sempre e solo per sé – che di quello stato precario è conseguenza diretta.




Lo fa nella forma, anche meglio che nei fumetti: quella dei millennial è la prima generazione abituata a comunicare stando in silenzio e a distanza, piuttosto che a voce e di persona, e questo non può che impattare sul flusso continuo di interferenze, ricordi e domande senza risposta che fa una vita interiore; difficilmente Strappare Lungo i Bordi risulterebbe potabile per i nostri genitori, distanti da noi quanto un 56k da una fibra ottica – parentesi: la migliore rappresentazione cinematografica di questo scarto la trovate nel notevole Freaks Out di Mainetti, nella scena in cui un ufficiale nazista, uomo degli anni Quaranta del secolo scorso, ride isterico e allucinato davanti all’infinite scroll di uno smartphone.

Lo fa nella sostanza: reso così complicato il confronto con l’esterno, il dialogo interno rischia di trasformarsi in ossessivo ruminare, una camera dell’eco in cui le voci degli altri sono semplicemente storpiature della nostra; troppo concentrati su se stessi, le ragioni dei comportamenti altrui continuano a rimanere un enigma da risolvere. L’unico modo per rompere uno schema sicuro ma limitante e crescere è uscire dalla propria testa, aprirsi al mondo con tutti i rischi, le incertezze e pure il languore che questo comporta.

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Zerocalcare e la caduta

È una serie capace di tenere testa ai migliori prodotti visti in questi anni, Strappare Lungo I Bordi: facile, per me, associarla a classici contemporanei come Bojack Horseman – per l’ostinazione con cui guarda dentro l’abisso del sé, piuttosto che distogliere lo sguardo – o Fleabag – proiettile a frammentazione con cui condivide, oltre alla misura da lungometraggio, il desiderio di perdersi in infiniti rivoli pur di rimandare il confronto con la realtà.

A differenza di questi, il lavoro di Zerocalcare vanta un’immediatezza rauca che la rende meno artsy ma decisamente più relatable, senza che nulla vada perso nella traduzione delle intenzioni dell’autore in immagini in movimento. In un tempo di giuste cause ridotte a spillette per giacche di marca, vi pioveranno letteralmente addosso indicazioni su dove trovare sostegno psicologico in caso di tendenze suicidarie; molto meno frequentemente troverete parole tanto schiette e prive di retorica sulle ragioni che spingono una persona a togliersi la vita.

Ed è questa la nota amara su cui sento di chiudere, elefante nella stanza di cui non posso evitare di parlare.

Quella di Zerocalcare è una serie che gronda margini non raccontati, periferie – per una volta non forzatamente violente, che di solito è come i privilegiati, così compassionevoli, s’immaginano la povertà – e cultura underground; ma è pur sempre una serie Netflix, unico modo – insieme, diciamo, a Disney+ e Prime Video – in cui oggi possa vedere la luce un prodotto di qualità che voglia anche raggiungere un pubblico ampio.
Ecco: anche in questo ridursi di spazi indipendenti sta il valore “generazionale” di Strappare Lungo I Bordi, che rimane sotto ogni aspetto un’operazione artistica di qualità assoluta. Rappresenta in fondo la lacerazione di chi ha visto un mondo in cui era ancora possibile farsi strada mantenendo un’indipendenza anche relativa dalle grosse concentrazioni di capitale e ora è costretto in uno in cui non c’è alternativa all’essere assimilati.

Una generazione che percepisce sulla propria pelle il significato di un tragico interrogativo fisheriano: che succederebbe se organizzassi una protesta e venissero tutti?

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Zerocalcare e gli altri

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